Sicurezza, libertà, autonomia cognitiva
È scomparso ieri Danilo Zolo, filosofo e fondatore di “Jura gentium”, centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globale. Ci lascia una delle poche voci critiche e non omologate al pensiero unico degli ultimi decenni.
di DANILO ZOLO
Il trionfo dell’economia di mercato non ha soltanto messo in crisi lo Stato democratico nella sua forma di Welfare state: ha coinvolto l’intera esperienza delle istituzioni liberaldemocratiche occidentali. Il termine “sicurezza” è sempre meno associato ai legami di appartenenza sociale, alla solidarietà, alla prevenzione, all’assistenza, in una parola alla sicurezza intesa come garanzia democratica per tutti di trascorrere la vita al riparo dall’indigenza, dalle malattie, dallo spettro di una vecchiaia invalidante e miserabile, da una morte precoce. Si tratta di un drastico passaggio da una concezione della sicurezza come riconoscimento dell’identità delle persone e della loro partecipazione alla vita sociale ad una concezione della sicurezza intesa come difesa poliziesca degli individui da possibili atti di aggressione e come repressione e punizione della devianza.
Zygmunt Bauman, nel suo Liquid Fear, ha sostenuto che in tempi di globalizzazione la sicurezza all’interno degli Stati è sempre più concepita come “incolumità individuale” sulla base dell’assunzione – in larga parte fondata su interpretazioni distorsive dei dati statistici – che ci troviamo di fronte ad un costante aumento della criminalità. La “cultura del controllo” si concentra sulla difesa del territorio, sulla militarizzazione delle città e delle singole residenze abitative, sulla messa sotto tutela di alcune categorie sociali considerate “pericolose”, sull’uso di guardie private e sul rigore penale. Ai processi di globalizzazione corrisponde nella maggioranza dei paesi occidentali (e in alcuni altri paesi latinoamericani, come il Brasile, la Giamaica e il Messico, che ne hanno seguito l’esempio), una profonda trasformazione delle politiche penali e repressive: una trasformazione per la quale Loïc Wacquant ha coniato l’espressione “dallo Stato sociale allo Stato penale”.
In una larga parte dei paesi occidentali l’amministrazione penitenziaria tende a occupare gli spazi lasciati liberi dalla smobilitazione istituzionale di ampi settori della vita politica, sociale ed economica del Welfare state. Gli Stati occidentali accordano un’importanza crescente al controllo poliziesco delle persone e alla lotta armata contro la criminalità. Lo fanno all’insegna dell’ideologia penale della Zero tolerance, che si è affermata negli Stati Uniti e che la deriva della globalizzazione ha poi rapidamente diffuso in molti paesi occidentali. Oggetto di un minuzioso controllo del territorio e di una repressione inflessibile sono i comportamenti devianti, anche di lievissima entità, dei soggetti marginali che non si adeguano ai modelli del conformismo sociale e che sono pertanto considerati i massimi responsabili del disordine e dell’insicurezza.
Un caso esemplare è rappresentato dalle politiche penali e penitenziarie praticate negli Stati Uniti nell’ultimo trentennio. La superpotenza americana occupa il primo posto sia nella lotta contro la criminalità, sia nell’incarcerazione di un numero crescente di detenuti (solo la Federazione russa si avvicina alle quote statunitensi). A questo primato si aggiunge, come è noto, l’ostinata applicazione della pena di morte. Dal 1980 ad oggi negli Stati Uniti la popolazione penitenziaria si è più che triplicata, raggiungendo nel 2007 la cifra di oltre 2.300.000 detenuti. Il tasso di detenzione è il più alto del mondo: 753 cittadini incarcerati ogni 100.000, sette volte più che in Italia.
Questi dati appaiono ancora più rilevanti se si considera che negli Stati Uniti i detenuti sono soltanto un terzo della popolazione soggetta a controllo penale. Ci sono infatti oltre quattro milioni di cittadini sottoposti alle misure alternative della probation e della parole, e questo porta complessivamente a oltre sei milioni le persone che sono sottoposte a una qualche forma di misura penale per “ridurre la paura” nel paese della libertà.
A tutto questo occorre aggiungere che negli Stati Uniti è in corso la tendenza alla privatizzazione del carcere. È il cosiddetto correctional business, il cui volume di affari ha segnato una crescita esponenziale e la cui struttura ha assunto le caratteristiche di una “multinazionale delle sbarre”, diffondendosi in paesi come la Gran Bretagna, l’Australia, Israele e il Cile. Negli Stati Uniti, in un numero crescente di istituti penitenziari privati, molti dei quali quotati in borsa, sono oggi rinchiusi oltre trecentomila detenuti, pari a circa un quinto della popolazione carceraria complessiva. La logica di questa impresa economica è ovviamente il profitto e questo incide in misura rilevante sulla qualità del trattamento carcerario: è ormai del tutto abbandonato il modello del carcere come luogo di “rieducazione” e di “risocializzazione”. I penitenziari sono delle discariche umane che, non diversamente dal patibolo, hanno il compito di incapacitare e annientare i soggetti devianti, come vuole il diffuso fervore giustizialista e vendicativo – si pensi all’imponente fenomeno del Victim’s Rights Mouvement – che oggi esalta le virtù terapeutiche del carcere e della pena di morte.
Di fronte a questo panorama allarmante sorge spontanea la domanda: che cosa fare? che cosa fare in Italia, in Europa, nel mondo? Che cosa fare nella Federazione russa? Che cosa possono fare le forze progressiste in presenza di una deriva “post-democratica” che investe l’Occidente intero, diffonde la povertà, l’insicurezza e la paura, ricorre a crudeli strategie repressive inclusa la pena capitale? La risposta è drammaticamente difficile e non sono certo in grado di tentare qui una risposta adeguata.
L’idea classica di “eguaglianza sociale” è difficilmente proponibile entro le moderne società postindustriali. Stretti fra il bisogno di identità e una crescente pressione omologatrice, prodotta dai mezzi di comunicazione e dal mercato, gli individui sembrano attratti da una sorta di “bisogno di diseguaglianza”, dall’aspirazione a realizzare e proclamare la propria differenza. E lo fanno non necessariamente per raggiungere posizioni di privilegio, ma per realizzare in qualche modo la propria libertà di fronte alla muraglia del conformismo. Soprattutto fra i più giovani la paura fondamentale è di non essere se stessi, di non essere nessuno, di fallire come esseri umani.
Ciò di cui le nuove generazioni sentono bisogno non è però semplicemente la libertà “negativa”, la libertà di non essere impediti da costrizioni esterne, secondo la formula teorizzata da Isaiah Berlin. Si aspira a qualcosa di più e di diverso: ciascuno vorrebbe disegnare il profilo della propria vita. Ciascuno vorrebbe che il suo destino fosse il risultato di un suo progetto su se stesso, non di un disegno altrui. Vorrebbe controllare i suoi processi cognitivi, i suoi sentimenti e le sue emozioni: in poche parole, aspira alla sua “autonomia cognitiva”.
Per autonomia cognitiva, come essenza stessa della libertà individuale, si può intendere la capacità del soggetto di controllare, filtrare e interpretare razionalmente le comunicazioni che riceve. Entro società informatizzate la garanzia giuridica dei diritti di libertà e dei diritti politici rischia di essere un guscio vuoto se non include l'”autonomia cognitiva”: se questa manca, è impensabile che si formi un’opinione pubblica indipendente rispetto ai processi di autolegittimazione promossi dalle élites politiche al potere. In presenza di una crescente efficacia persuasiva dei mezzi di comunicazione di massa il destino delle istituzioni politiche occidentali sembra dipendere dall’esito della battaglia a favore di questo fondamentale “diritto umano”, l'”autonomia cognitiva”, che potrebbe essere anche chiamato habeas mentem.
Vorrei concludere aggiungendo, contro l’utopia cosmopolita à la Bauman o à la Habermas, che l’autonomia individuale non esclude ma anzi implica il senso di appartenenza a un particolare gruppo sociale e culturale. Non c’è autonomia e libertà senza radici nella particolarità di un territorio, senza identificazione intellettuale, sentimentale ed emotiva con una storia, una cultura, una lingua, un destino comune. E non c’è sicurezza ma dispersione e solitudine senza solidarietà, condivisione, un senso di omogeneità, una qualche spontanea intimità nei rapporti sociali. Solo chi dispone di solide radici identitarie riconosce l’identità altrui, rispetta la differenza, cerca il dialogo con gli altri, rifugge da ogni fondamentalismo e dogmatismo, è sicuro che l’incontro fra le diverse culture e civiltà del pianeta non è soltanto la condizione della pace ma è anche un patrimonio evolutivo irrinunciabile per la specie umana.
fonte: juragentium.org
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