L’egemonia tedesca in Europa (seconda parte)
di GIANFRANCO COSTANTINI (FSI Pescara)
Il secondo concetto al centro della “questione europea” è la crescente disparità tra classi sociali. Purtroppo, in pochi sanno che le enormi sofferenze che viviamo noi lavoratori dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi, non sono poi differenti dalle stesse che si affrontano nelle aree economiche di “successo”. Noi abbiamo tanta disoccupazione e la povertà che dilaga nel Meridione ma oggi, in Germania, oltre sette milioni e mezzo di persone lavora con un contratto di mini job, il che la dice lunga sulle condizioni lavorative e salariali che affrontano le classi subalterne nella maggiore economia del continente.
Cerco di schematizzare le ragioni che hanno portato questo cortocircuito che vede esistere stati ricchissimi, abitati da persone che sono sempre più povere (o meno ricche). Finito il secondo conflitto mondiale, con la conferenza di Yalta, il mondo, come tutti sanno, è stato diviso per zone di influenza. La forza del blocco comunista che alla fine del 1959 si estendeva dal gelo delle steppe siberiane, fino alle calde spiagge cubane, rappresentava un’alternativa al modello capitalistico e viceversa.
Per questo motivo, da entrambi i fronti, si è pensato di arginare la crescita della ideologia concorrente, attraverso uno sviluppo separato e contrapposto. Guardando il blocco di influenza occidentale, si può osservare chiaramente che la successiva guerra fredda aveva imposto alle nostre oligarchie dominanti, soprattutto in Europa, una responsabilità enorme nel trasferimento del benessere verso le popolazioni; furono gli anni delle costituzioni socialiste, necessarie per garantire il progresso, il benessere e la tenuta del blocco occidentale in mani salde.
Nel dopoguerra il capitalismo ha avuto un volto umano dopo essere stato scottato dai disastri economici che esso stesso aveva provocato. L’ideologia liberale, da sempre al servizio del capitale e delle classi parassitarie che vivono di rendita, aveva provocato il disastro economico e sociale, sfociato nella grande depressione del 1929 e nel successivo conflitto mondiale, costato oltre settanta milioni di vite umane; in quella fase storica tale ideologia sembrava essere stata messa definitivamente all’angolo. A partire dal New Deal di Roosevelt negli Stati Uniti, le nuove teorie economiche sostituirono le vecchie; furono fondamentali le intuizioni dell’economista inglese John Maynard Keynes.
Questa nuova Scuola stravolge la teoria classica e per la prima volta prevede un ruolo attivo della moneta nell’economia attraverso un suo impiego organico. Per aumentare la crescita economica contemplava una economia mista, in cui lo Stato interveniva direttamente per correggere le storture del mercato e per favorire il pieno impiego dei fattori della produzione attraverso la spesa pubblica (che poi è il metodo fondamentale per trasferire ricchezza ai privati). In concreto, le politiche keynesiane, cristallizzate ad esempio nella nostra costituzione, grazie al contributo dell’economista Federico Caffè, affiancate a importanti strumenti cooperativi, come l’Unione Europea Dei Pagamenti, hanno consentito una rinascita economica e sociale in Italia e in Europa così imponente e diffusa che non ha avuto pari nella storia dell’umanità.
Così, mentre un certo capitalismo, responsabile e progressista, andava a braccetto con la migliore politica, spingendo la società ai massimi livelli, un altro tipo di capitalismo, di stampo liberale, eversivo e reazionario, sottotraccia iniziava a fare proseliti. Già negli anni settanta questi eversivi, organizzati in club, in commissioni e gruppi di dialogo, con risorse illimitate, con l’unico obiettivo di riportare le oligarchie finanziarie al vertice del controllo sociale, è riuscito a colonizzare quasi ogni ambito del pensiero economico-politico, partendo dalle università.
Quando le politiche keynesiane dopo decenni di successi non hanno saputo più dare le risposte desiderate a seguito dello shock petrolifero e il blocco comunista è entrato in crisi, a livello ideologico non ha trovato più nessun ostacolo. A suon di “there is no alternative” non ci sono alternative, la società di stampo liberale, si è imposta come unico “mondo” possibile e ha invaso l’orizzonte. In Europa questa vecchia ideologia ottocentesca, ha trovato nuova linfa e si è evoluta in una scuola economica a sé stante, chiamata “la scuola di Friburgo”. Da questa scuola è nata l’ideologia ordoliberale, fortemente condizionata dal pensiero di Friedrich August Von Hayek, economista e sociologo della Scuola Austriaca.
Questa corrente economica ha pressoché gli stessi obiettivi del liberismo che ha finito per sostituire, ma ha ricette economiche differenti nel rapporto tra economia e regole. Mentre il pensiero liberista vuole imporre il predominio del più forte in un mercato lasciato libero di agire in piena autonomia, le teorie del laisser-faire e della mano invisibile che regola l’economia, il pensiero ordoliberale vuole agire preventivamente con l’inserimento nell’ordinamento, dei principi di libero scambio.
Vuole imporre (forse sarebbe meglio dire sta imponendo) la forza del capitale e restaurare le vecchie e nuove oligarchie dominanti, impadronendosi delle istituzioni democratiche per poi svuotarle e portarle a invertire le regole costituzionali a proprio vantaggio.
In Europa due conflitti si sovrappongono in un intreccio micidiale e perverso; le oligarchie legate al capitale globalizzato schiacciano le masse dei lavoratori, al contempo le nazioni più aggressive e coese, attaccano quelle più fragili. All’orizzonte si addensano nubi minacciose e la conflittualità travalica i confini continentali; l’attacco militare alla Libia e il neocolonialismo francese e inglese sono ormai la cronaca di una vera e propria guerra rapace anche contro l’Italia e i sui interessi petroliferi, intrapresa per arginare le perdite subite in vent’anni di competizione commerciale sfrenata, soprattutto all’interno dell’Eurozona.
Per comprendere a pieno il motivo di questo disastro che ha riportato indietro le lancette dell’orologio della storia di un secolo, occorre insistere e comprendere a pieno la clamorosa affermazione della ideologia ordoliberista. Essa rappresenta il nocciolo duro della questione europea e condiziona più di ogni altro aspetto il nostro vivere quotidiano. Già dagli anni Cinquanta si può facilmente verificare che in Occidente si è attuata una lenta ma efficace restaurazione della ideologia politico-economica che ciclicamente provoca disparità sociale, miseria, guerre e distruzione, ovvero “l’ideologia liberale”, nella sua ultima e pericolosa degenerazione, “l’ordoliberismo”. Questa ideologia ottocentesca, da sempre a servizio delle aristocrazie finanziarie, si avvale di una nuova e più efficace strategia, ovvero l’inserimento dei suoi principi nei trattati internazionali e nello specifico in quelli europei.
Grazie all’uso strumentale delle istituzioni sovranazionali ha fortemente condizionato tutte le nazioni aderenti all’UE e con un abile disegno di vincoli e sanzioni ha disinnescato di fatto quasi tutte le costituzioni nazionali. Anche Stati dotati di una Carta anti liberale, fondata su principi di economia di tipo keynesiano come l’Italia, sono stati catturati e vincolati. L’incompatibilità tra i trattati europei e la Costituzione della Repubblica italiana non è sanabile: gli articoli fondamentali della Costituzione, in particolare 1, 3 e 4 definiscono il lavoro come diritto fondamentale in una maniera inequivocabile. Ne consegue che i principi fondamentali proiettano ogni azione della Repubblica, verso la piena occupazione dei cittadini italiani.
Al contrario a partire dal trattato sull’Unione Europea del 1992, negli articoli 2 e 3 (Trattato di Maastricht), fino ad arrivare al Trattato sull’Unione Europea, articolo 3 (Trattato di Lisbona) si trovano enunciazioni opposte a quelle costituzionali italiane. A ben leggere, il lavoro è posto in una condizione di subalternità alla stabilità dei prezzi, alla concorrenza e alla forte competizione, se ne ricava quindi che il lavoro è un principio subordinato e qualsiasi livello di disoccupazione è tollerabile, purché consenta la “stabilità dei prezzi” che di fatto diventa il principio cardine dell’Unione.
Quindi possiamo dire che i principi fondamentali, proiettano ogni sforzo dell’Unione Europea verso la stabilità dei prezzi, prim’ancora che alla piena occupazione. Cosa comporta questo cambio di paradigma giuridico? Principalmente lo spostamento dell’interesse generale dal lavoro alla rendita perché chi detiene grandi capitali, si finanziarizza e sotto varie forme impiega la ricchezza prestandola. La bassa inflazione, ovvero la stabilità dei prezzi, consente loro di riavere indietro i capitali, senza correre il rischio di vederli svalutati dal tempo.
Di contro, un debitore che non vede svalutare dal tempo il proprio debito, sarà costretto a ripagarlo con il proprio lavoro, al costo di una fatica maggiore. Quindi si avvantaggia la rendita a scapito del lavoro. Perché dico questo? Perché oltre alla maggiore fatica nei rimborsi (che potrebbe essere anche trascurabile), c’è un aspetto che coinvolge praticamente tutti i lavoratori ed è il seguente: per mantenere una stabilità dei prezzi e per ottenere bassa inflazione strutturalmente non esistono altri strumenti oltre la disoccupazione. Quando c’è una massa di disoccupati che preme per entrare nel mondo del lavoro, facilmente le rivendicazioni salariali sono rigettate, quindi il potere d’acquisto complessivo diminuisce reprimendo i consumi, in ultima battuta si abbassa l’inflazione fino all’obiettivo prefissato.
Il trionfo del capitale sul lavoro però si realizza con le liberalizzazioni dei capitali e del Mercato Comune Europeo. Chiunque avrà dubbi a riguardo e avrà la curiosità di leggere i trattati europei (dopo aver letto la Costituzione Italiana ovviamente), se non lo ha mai fatto, si troverà dinanzi a concetti altissimi accanto ad altri assurdi, che nulla aggiungono e anzi quasi tutto modificano, soprattutto nel nostro status giuridico-sociale.
Con un linguaggio criptico, i cittadini si trasformano in consumatori, il lavoro diventa merce e la competizione tra gli Stati sostituisce la cooperazione, in un crescendo disordinato e incomprensibile. Il conflitto tra il capitale e lavoro, secondo quanto scritto nelle norme, pende pericolosamente a favore dei primi. I trattati europei hanno reso il conflitto sociale ordinamentale, ovvero scritto nell’insieme di norme e regolamenti che disciplinano il funzionamento delle istituzioni europee, decretandone a tavolino il vincitore. Le oligarchie, grazie alla vincente strategia ordoliberista, per imporre la loro forza, obbligano i governi nazionali (di conseguenza i parlamenti e tutte le istituzioni democraticamente elette) ad agire nel loro interesse attraverso vincoli e sanzioni, svuotando di funzioni gli stessi Stati che si vedono dirigere da istituzioni, norme e regolamenti che ne invertono gli indirizzi costituzionali.
Oggi in Europa è veramente impossibile pensare che si possa correggere la direzione imposta dai trattati e riportarla verso binari più democratici e cooperativi. Illustri pensatori prezzolati accanto a utili idioti in perfetta buona fede, a piene pagine sui giornali e a gran voce nelle televisioni, chiedono di completare il processo di unificazione europea; qualcuno addirittura si spinge a sognare gli Stati Uniti d’Europa. Peccato che il Trattato di Lisbona, oltre ad avere un “lato A” denominato Trattato sull’Unione Europea (TUE), ha un “lato B” che se vogliamo è ancora peggiore: Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
Tale trattato contiene norme tecniche di attuazione del TUE e ha pari valore giuridico, serve per tradurre in atti pratici i valori enunciati negli articoli 123, 124, 125, impedisce categoricamente all’Unione Europea di proseguire verso una fase di maggiore integrazione, specie dal punto di vista economico-monetario. Oggi, mentre noi ragioniamo se è giusto o meno unire indissolubilmente il continente in una entità sovranazionale, la Germania (ma forse anche la Francia) si è assicurata preventivamente che una tale ipotesi non si verifichi mai, pena l’annullamento dei trattati stessi. Questo significa che la Germania, dopo aver lavorato sporco per ottenere un surplus commerciale con il quale ha reso debitore quasi l’intero continente, non rinuncerà mai al suo ruolo di grande creditore e lo userà con tutti fino alla morte del progetto di unificazione europea.
Stando ai fatti, emerge che i Trattati dell’Unione Europea, attraverso la competizione sfrenata hanno rafforzato le oligarchie dominanti della nazione più forte e aggressiva del continente, sfruttando il lavoro sottopagato dei suoi lavoratori. La nostra Costituzione all’articolo 11 consente limitazioni di sovranità e non cessioni: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Anche la nostra Costituzione proibisce una “maggiore integrazione europea” perché per attuarla bisognerebbe cedere porzioni importanti di sovranità e già oggi, valutando il presente, se si potesse porre direttamente alla Corte la questione di costituzionalità, anche un modesto giurista preparato in materia economica riuscirebbe a individuare facilmente più di un argomento che porterebbe all’immediata applicazione della norma costituzionale, fondamentalissima e inderogabile.
Nonostante gli innumerevoli argomenti che si possono addurre a favore di una riappropriazione della sovranità nazionale, la via di fuga per noi italiani è stretta perché l’ideologia ordoliberista, cardine dei Trattati europei, ha eminenti sostenitori nel nostro paese ancora oggi ai vertici delle istituzioni italiane e europee mentre le nostre élite finanziarie e industriali, così come le vecchie nobiltà siciliane descritte nel Gattopardo, accettano lo straniero in casa con l’unico obiettivo di mantenere o ampliare il proprio status: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
Solo la comprensione piena della trappola ideologica che sta soggiogando l’Europa può generare gli anticorpi necessari per invertire il corso degli eventi. L’ideologia liberale che anima l’odierno europeismo è feroce e foriera di sciagure economico-sociali, alimenta reazioni irrazionali che in passato sono sfociate nel nazismo e nel fascismo.
Il professor Stefano D’Andrea, inventore del termine Sovranismo e fondatore del Fronte Sovranista Italiano, afferma che l’ideologia europeista è divenuta una religione e i suoi adepti si sentono portatori di una missione storica, ovvero riportare le oligarchie a governare come in una sorta di dispotismo illuminato; sarà il destino di questa generazione sposare una ideologia opposta con la stessa forza, capace di ripristinare i valori democratici costituzionali.
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