Il postmoderno: una breve introduzione
di GIAMPIERO MARANO (FSI Varese)
Il Sessantotto segna l’ingresso dell’Occidente nella fase estrema, ctonia e volatile nello stesso tempo, della modernità: se dopo questa data, come osserva Costanzo Preve, il capitalismo si rafforza sbarazzandosi dell’etica familiare borghese, è inevitabile che il prezzo pagato per un incremento di potenza oggettivamente prodigioso sia elevatissimo – e in quale inquietante senso lo lascia intendere Elémire Zolla quando commenta così il Sessantotto francese: “Lo scossone al gaullismo (…) riuscì tutto conforme ai desideri dei satanisti in crociera sul Mediterraneo”.
Da questo momento credenze, pratiche, mode e comportamenti che nei decenni precedenti del Novecento erano rimasti circoscritti a gruppi relativamente elitari dilagano nella società di massa. E così, spesso veicolata dalla musica rock, si diffonde l’attesa di una New Age, l’Età dell’Acquario alla quale si ispira il celebre festival hippie di Woodstock del 1969, che trascina con sé un confuso e limaccioso interesse sincretistico per le religioni orientali, lo sciamanesimo, l’occultismo, l’ecologia, le medicine alternative, l’ufologia. Fiorisce da questo ceppo tutta una letteratura estremamente eterogenea che ha due figure di spicco, sebbene irriducibili l’una all’altra, in Carlos Castaneda (A scuola dallo stregone, 1968) e nell’ex teosofo Jiddu Krishnamurti (La sola rivoluzione, 1970).
Non riconducibile alla New Age ma anch’esso espressione del recupero novecentesco di aspetti della Tradizione “deviati dal loro vero significato e posti in certo qual modo al servizio dell’errore” (Guénon) è un testo come Rizoma di Deleuze e Guattari (1976). Contrapponendo il “modello rizomatico” prodotto dall’inconscio e da essi considerato peculiare dell’Oriente, al “modello occidentale dell’albero” minato dall’aspirazione alla “trascendenza, malattia tipicamente europea”, Deleuze e Guattari contestano la logica dualistica soggetto-oggetto (spirito-natura) che sta alla base della psicanalisi, della linguistica, dello strutturalismo, dell’informatica e, soprattutto, dell’istituzione statale con la sua “pretesa (…) di essere l’immagine interiorizzata di un ordine del mondo, e di radicare l’uomo”.
Ma nell’offensiva lanciata dalla Controtradizione ha un ruolo determinante il fenomeno tardo-novecentesco del postmoderno.
Secondo Lyotard (La condizione post-moderna, 1979), le principali caratteristiche di questa nuova forma culturale consistono nel tramonto della funzione emancipatrice del sapere, ormai ridotto a merce e privato di ogni legame con la formazione della personalità; nella limitazione del ruolo dello Stato nell’economia, causato dalla globalizzazione dei mercati; nell’avvento dell’informatica; nella fine della lotta di classe; nella sostituzione della “pragmatica performativa” alla verità. In generale, il post-moderno coincide con la fine delle grandi narrazioni, dunque con il crollo delle ideologie politiche e delle certezze scientifiche, sulle cui rovine il relativismo etico celebra i suoi fasti.
Nel postmoderno il neo-marxista Fredric Jameson (Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, 1984) ravvisa “l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo”, intimamente connesso alla terza fase “multinazionale” del capitalismo, che segue quelle del “mercato nazionale” e del “sistema imperialistico”. Gli aspetti salienti del postmoderno sono, secondo Jameson, la cancellazione del confine tra cultura alta e cultura commerciale di massa, che si impone con citazioni insistite da programmi televisivi, pubblicità, film dozzinali e paraletteratura; il culto del simulacro e dello spettacolo; l’indebolimento del senso storico, con la conseguente abolizione del futuro e del “progetto collettivo”; la frammentazione e il “decentramento” della soggettività, accompagnati dall’eclissi del sentire profondo, a tal punto che nei prodotti culturali postmoderni i sentimenti “fluttuano liberamente, sono impersonali”.
Per Gianni Vattimo (La fine della modernità, 1985), infine, il postmoderno si caratterizza come esperienza della fine della storia, dovuta non solo all’incombere di una possibile catastrofe atomica ma anche all’esaurirsi della concezione teleologica del divenire come processo unitario orientato verso una meta finale. In tale disincantata prospettiva, così ostile all’utopia della Rivoluzione, le avanguardie non hanno più senso e la modernità stessa, in quanto “epoca della riduzione dell’essere al novum“, può dirsi finita.
Ma se il nuovo è morto, se la storia non ha direzione né può essere indirizzata, rimane allora soltanto la possibilità di ricombinare incessantemente ciò che è già stato.
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