Le radici socialiste del sovranismo costituzionale
“In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla” (Tesi XVIIa – A).
[…] Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia. Ma nessuno stato di fatto è, in qualità di causa, già perciò storico. Lo diventa solo successivamente attraverso circostanze che possono essere distanti migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli invece afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell’adesso, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico” (Tesi – VI).
Walter Benjamin
1. Antefatto. La contraddizione attuale
Lo scritto si propone di introdurre uno dei filoni storico-politici più importanti che hanno segnato il sovranismo, nella fattispecie la galassia costituzionale e neo-socialista. Ciò è avvenuto in seguito alla crisi economica, nel 2008, proveniente dai subrimes americani i quali, colpendo l’Europa, hanno dato luogo, anche in Italia, ad una rinnovata e collettiva coscienza di classe. Il primo grande contributo scientifico, che mise in luce l’impotenza delle istituzioni europee nel salvaguardare il lavoro e la società italiana dalle aggressioni del capitale a causa dei suoi choc esogeni, conseguì dalla precoce analisi giuridica dell’allora sconosciuto professore universitario Stefano D’Andrea (2011) (1). Il suo articolo, O la costituzione italiana o l’Unione Europea, veniva scritto a novembre del 2011, proprio nel momento in cui l’ex capo del governo, Silvio Berlusconi, rinunciava al suo incarico in seguito alla lettera di Jean-Claude-Trichet, ex presidente della BCE (Banca Centrale Europea), istituto di credito indipendente dai parlamenti dei singoli paesi membri dell’Unione. L’intervento politico di un soggetto privato esterno, che delegittimava un governo investito dalla volontà popolare, andava chiaramente a inficiare le ordinarie procedure democratiche di un paese sovrano. In questo modo, D’Andrea, mentre descriveva tecnicamente l’impossibilità da parte della classe dirigente di fare ricorso alla Costituzione sul piano giuridico (in quanto l’Unione vietava allo Stato di rispondere alla crisi per mezzo di interventi economici anti-ciclici), segnalava indirettamente anche un golpe bianco sul versante politico (2).
Da quel momento in poi fu tutto un susseguirsi di eventi, conferenze, analisi (3), esperimenti di aggregazione sociale all’interno di un universo ancora magmatico i cui effetti, tuttavia, apparivano più spesso fragili e inconcludenti. Da una parte, esplosero tentativi di egemonia, animati da un volgare e riduttivo economicismo anti-euro, dominato spesso da un intellettualismo auto-referenziale; dall’altra, si moltiplicava un tipo di associazionismo populista che finiva puntualmente per riconfluire nei partiti istituzionali-liberali, i quali d’altronde non si sono fatti sfuggire l’occasione di fagocitarlo e di raccogliere inoltre singoli elementi sparsi di autentica rottura, divenuti funzionali solo alla loro stessa promozione politica (es: il programma “Basta Euro” del 2014, proposto da Claudio Borghi Aquilini, economista della Lega).
In generale però, si è trattato di un fermento ricco ed estremamente variegato che, dopo questa prima fase di selezione, ha determinato la nascita di alcune formazioni partitiche neo-socialiste sebbene ancora di piccola entità. Questo è accaduto perché si sono sprigionate nuove energie che, in buona parte, provenivano da classi medie e meno abbienti, rimaste finora estranee alla politica. La spontaneità della frattura con l’establishment, e l’urgenza di darsi risposte concrete, ha conferito quindi alla cultura sovranista un’autonoma impostazione popolare, risultato tuttavia di un’osmosi, non di rado anche di natura conflittuale, prodotta dentro e fuori l’accademia, in virtù della quale, ad avviso di chi scrive, ha potuto ritrovare probabilmente una più autentica unità tra teoria e prassi. Tanto è bastato per mettere in discussione una serie di dogmi che ormai caratterizzavano molte delle categorie novecentesche ma, in modo inaspettato, soprattutto quelle di fine secolo piuttosto che del suo inizio. Paradossalmente, il sovranismo costituzionale fa un passo indietro per compiere un balzo in avanti, nel senso che ha ricucito il cammino con una tradizione bruscamente interrotta a metà del secolo scorso, mentre ne ha abbandonata un’altra che ideologicamente era stata profilata come più moderna. Si è dato troppo per scontato come il concetto di nazione fosse diventato obsoleto per la lotta di classe, che anzi l’avrebbe oppressa sempre di più, e si è finititi per accogliere, senza rendersene conto, un tipo di internazionalismo meccanicistico e vuoto (4 – Fazi 2018).
2. Il passato si riconquista
Il tempo storico non costituisce una catena di circostanze che si susseguono lungo un movimento di causa-effetto, una litania ripetitiva simile a quella di un rosario, scriveva Walter Benjamin, mentre semmai appare ai nostri occhi come un’eredità. Quest’ultima infatti non è mai solo di derivazione biologica, ossia un accadimento che accogliamo a causa di un mero passaggio genitoriale, ma riguarda piuttosto la volontà di una riconquista, un movimento soggettivo con il quale reclamiamo quello che ci spetta. Quando guardiamo al passato, continua Benjamin, e ci ritroviamo innanzi ad un cimitero inerte di eventi che si susseguono, ridotti a macerie prive di senso, rimane sempre nostro compito quello di scegliere, tra le rovine, quelle che consideriamo di maggior valore. Il passato così non si subisce passivamente ma si lotta per riprenderlo e si attualizza secondo la nostra necessità. Di conseguenza, quello che sembra apparire come una regressione diventa un movimento a spirale che si traduce in uno slancio proteso in avanti: un progresso.
Egli (lo storico) invece afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. (e) Fonda così un concetto di presente come quell’adesso. (5 – Benjamin, 2006).
Eccetto che il passato, prima di tutto, andrebbe conosciuto.
Partiamo quindi per un attimo da chi, al contrario, ha deciso di non scegliere e di raccogliere un’eredità alla stregua di un regalo. Partiamo cioè da quelle organizzazioni che già esistevano ma che, senza mai voltarsi indietro per un istante, hanno semplicemente continuato a vivere, sicuri di procedere dritto verso il futuro, mentre reiteravano un movimento circolare e tautologico. Da qui la rimozione, da parte dei gruppi giovanili dirigenti della sinistra comunista, delle proprie origini, che impedisce loro di leggere l’attuale crisi democratica. Si tratta, per lo più, di una grave lacuna intellettuale e storica che confonde tutto in un’oscura notte delle vacche nere, mentre, come abbiamo visto, siamo in presenza di una circostanza molto più complessa. Si legga ad esempio l’articolo di Tiziano Censi, responsabile organizzazione del FGC (Fronte della Gioventù Comunista) e del Partito Comunista, Le radici del sovranismo:
In questi ambienti non ci si limita ad esaltare il concetto di nazione ma si riprendono molti dei temi della cosiddetta “destra sociale” rimodulandoli in maniera che siano appetibili ad un pubblico più ampio possibile, con una fraseologia che comincia a farsi strada anche negli ambienti di sinistra” (6 – Censi, 2020).
Giunto a questa riflessione, Censi osserva dunque che, da qualche tempo a questa parte, sono spuntate voci critiche riguardo le politiche liberali degli ultimi 40 anni, spostando tuttavia in maniera maldestra il proprio fuoco, dalla questione del capitalismo tout-court, verso invece la minaccia della globalizzazione economica, circostanza esterna usata, secondo l’autore, per camuffare gli interessi soggettivi di una borghesia in grado di sopravvivere economicamente solo nell’ambito del territorio nazionale (aggiungo io: per via di una spesa pubblica che, in assenza dei vincoli di bilancio UE, permetterebbe ancora di alimentare la domanda interna). L’articolo però tiene a precisare anche che l’obiettivo della polemica non si rivolge più stavolta verso le rimostranze euro-scettiche di partiti liberali e xenofobi come la Lega Nord, quanto piuttosto contro intellettuali, economisti, personaggi pubblici, gruppi populisti che, se pur reintroducono nel loro discorso (come nel caso dei diritti sociali) un linguaggio apparentemente progressista (es: Diego Fusaro lettore di Marx), si limitano a recuperare in verità i concetti di Stato, welfare-state, e unità nazionale contro l’Unione Europea e pertanto contro l’internazionalismo comunista.
Insomma, anche se Censi non entra nei dettagli allude a una soggettività politica ancora per lui indistinta ma di certo rosso-bruna (…con una fraseologia che comincia a farsi strada anche negli ambienti di sinistra) che, almeno a partire dallo scoppio del primo trauma sistemico (2011), appunto, si sta organizzando con l’intento di recuperare la storia repubblicana anteriore al Trattato di Maastricht del 1992. In effetti, continua l’organizzatore del FGC, la nostalgia (aggiungo io: per le “piccole patrie”) si fa puntualmente largo durante le consuetudinarie crisi capitalistiche, quando le classi meno abbienti, essendo più vulnerabili rispetto agli choc esogeni, sarebbero tentate di interrompere il conflitto sociale e creare un’alleanza con la piccola e media impresa, il cui profitto sembrerebbe minacciato dal grande capitale trans-nazionale. Quindi, il rancore populista finisce per scansare l’obiettivo della rivoluzione mondiale (o, paradossalmente, “nazional-europea”) e vi si sostituisce, facendo convergere inoltre le classi meno abbienti in un patto interclassista che le subordina all’interesse di una borghesia conservatrice e in grave sofferenza. A questo punto si farebbe avanti il sovranismo che, alla stregua del vecchio nazionalismo (nascosto però sotto mentite spoglie), fa da compagine tra classi sociali eterogenee, ora per mezzo di un neologismo edulcorato, condito da una retorica patriottica e misure protezionistiche sul lavoro, in grado di sedurre le classi subalterne. Mentre invece, conclude l’articolista, si è fatto spazio tra loro ancora una volta in realtà, con la sua tipica ideologia piccolo borghese, nient’altro che la tradizionale “destra sociale”.
3. Il frontismo
Mi domando, allora, se un personaggio come Tiziano Censi, con una laurea in scienze politiche, che è pur riuscito a diventare dirigente di un’organizzazione giovanile comunista, abbia mai sentito parlare del frontismo, perché a questo punto se ne può dubitare (7). Pertanto, occorre scrivere per il lettore non addetto ai lavori una digressione storica che porti alla luce la verità: ovvero, bisogna spiegare come, al contrario, le radici della famiglia socialista italiana fossero state costruite su di una granitica istanza in difesa della sovranità. Dunque, procediamo con ordine. Il frontismo fu la collaborazione politica tra PCI e PSI, che ricomponeva la ‘Scissione di Livorno’ del 1921, scaturita dapprima, durante la Resistenza, nella lotta congiunta contro il fascismo, e successivamente prorogata nell’immediato dopo guerra per mezzo di un’alleanza elettorale con il fine di vincere le elezioni del 1948.
Il frontismo tuttavia capitolò con il 30% dei voti a causa di una maggioranza netta della democrazia cristiana. Eppure, l’alleanza rimase piuttosto coesa fino almeno a poco prima del Trattato di Roma del 1957. In tale frangente, il Partito comunista e il Partito socialista, insieme alla Democrazia Cristiana, il partito Repubblicano, il partito di Unità proletaria, quello di Azione, e i liberali, furono promotori, innanzitutto, della Costituzione del 1948, scritta dai padri costituenti, tra i quali ricordiamo Palmiro Togliatti, segretario del PCI, ma anche dai leader del PSI, quali Lelio Basso e Pietro Nenni. Ebbene, furono anche loro ad approvare l’articolo 52 che recita così:
La difesa della patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici» (8).
Inoltre, fu lo stesso Togliatti, all’alba della sconfitta del fascismo, che nel 1945 annunciava lo stretto legame tra la classe dei lavoratori e la nazione:
E’ ridicolo che la classe operaia possa staccarsi, scindersi, dalla nazione. La classe operia è il nerbo delle nazioni non solo per il suo numero, ma per la sua funzione economica e politica. L’avvenire della nazione riposa innanzi tutto sulle spalle delle classi operaie. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono troncare le loro ‘radici vitali’. Il cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale, dei cartelli e dei trusts internazionali, dei grandi speculatori di borsa e dei fabbricanti di armi. Costoro sono i patrioti del loro portafoglio. Essi non soltanto vendono, ma si vendono volentieri al migliore offerente tra gli imperialisti stranieri» (9 – Togliatti, 1945).
A questo punto, credo, giovi confrontare l’espressione “radici vitali” usata da Togliatti per indicare il legame indissolubile tra la classe dei lavoratori e la nazione, con quella di “radici del sovranismo”, impiegata da Censi per designare l’origine populista e destroide di quegli stessi lavoratori, così da comprendere la distanza siderale tra il giovane comunista del 2020, ignaro della storia, e il segretario del PCI nel 1945, che ha fatto la storia.
Purtroppo, la sinistra si è persa, non solo nella sua versione integrata nell’establishment (come si presenta, fin dal Congresso della Bolognina, il PD), ma anche in tutte le sue altre forme extra-parlamentari, post-sessantottine, che confondono l’idea originaria di internazionalismo con il processo di centralizzazione senza concentrazione: ovvero, un comando del capitale centralizzato (ancora facente capo a specifiche nazioni), ma con unità produttive connesse in rete lungo filiere transnazionali che, nel loro effetto di disperdere la forza lavoro, distruggono semmai l’unità di classe (10). D’altronde, già con la III internazionale, e il socialismo in un solo paese, l’internazionalismo aveva assunto un significato totalmente diverso. Quest’ultimo consisteva piuttosto in una cooperazione che fosse ‘inter (fra) – nazionale (nazioni)’, la quale rimaneva estranea alla matrice libertaria e cosmopolita, pur esistita durante gli anni di clandestinità sotto il ventennio fascista. Tuttavia, sarebbe rimasta latente fino a metà degli anni ’60, quando invece prenderà il sopravvento la parabola operaista che giunse al picco del suo relativismo nel 1989 con l’ideologia della fine delle grandi narrazioni, prima fra tutte quella socialista. Rimasero appunto dei partiti superstiti che, riproponendosi però in forme destrutturate di lotta, organizzate in maniera orizzontale, e subordinate alle catene del valore trans-nazionali, finivano così per adattarsi, senza rendersene conto, all’ideologia de Il post-moderno: o la logica culturale del tardo capitalismo (11 – Jameson, 1989). Nella sua analisi estetica di impostazione marxista, che si combina insieme ad una prospettiva psicanalitica lacaniana, Jameson, durante il crollo dell’URSS, indaga l’incapacità del Sé nei paesi del capitalismo avanzato di ricostruire un conflitto con la realtà sociale che lo circonda. Scisso da ogni sostanza, il soggetto politico si separa anche dalla propria classe, che non riconosce più come tale, e rimane smarrito nel nuovo nichilismo, costituito da una rete apparentemente illimitata ma vuota, divenuta soltanto ora sistemica.
Viceversa, nell’epoca del frontismo, a Basso e a Togliatti (reduci dalla crisi del ’29) non era sfuggito affatto che il processo di accumulazione se, da una parte, aveva avuto certamente origini nazionali, dall’altra tuttavia, quando rimaneva fuori il controllo democratico delle istituzioni, poteva assumere un’origine internazionale. Difatti, l’imminente unione economica del Carbone e dell’Acciaio era stata attentamente esaminata dai leader socialisti e venne respinta proprio sulla base della Costituzione (12 – Cangemi, 2019). Nel mercato concorrenziale, che si sarebbe venuto a creare per mezzo della CECA, i trattati assicuravano un vantaggio strategico ai grandi gruppi industriali del nord Europa, costringendo i settori siderurgici italiani ad abbassare i salari della forza lavoro per riuscire a reggere la nuova concorrenza su scala continentale. Tanto che Lelio Basso in quegli anni arrivò a denunciare l’accordo comunitario con le seguenti parole:
Ecco, noi assistiamo a questo punto al passaggio improvviso di quelle borghesie occidentali dal vecchio esasperato nazionalismo ad un’ondata di cosmopolitismo. Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano queste unioni europee e queste continue rinuncie alla sovranità nazionale […]. L’internazionalismo proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera». (13 – Basso, 1949).
5. Interclassismo o alleanza pluriclasse?
D’altro canto, diversamente dalle affermazioni di Censi, l’idea di un’alleanza tra lavoratori e piccola-media borghesia non fu soltanto l’oggetto di interesse di un’impostazione interclassista, come avvene certamente per la DC, ma anche in seguito con l’ascesa di Luigi Berlinguer nel PCI, oppure con Bettino Craxi nel PSI, in un periodo di certa compromissione dei due grandi ex partiti dei lavoratori. In realtà, fin dagli esordi, i soggetti politici socialisti dimostrarono, al contrario, di costruire le loro fondamenta su di una solida base pluriclasse (evidentemente sconosciuta all’autore dell’articolo), per cui la ricostruzione della democrazia post-bellica doveva essere per forza di cose “nazional-popolare”.
Tanto per cominciare, nonostante la guerra civile, l’Italia era considerata un paese sconfitto cui venivano imposte, con il Trattato di Parigi del 1947, forme di limitazioni e di controllo da parte di forze straniere. In altre parole, la narrazione per cui, grazie all’Europa, ci sarebbero stati 70 anni di pace, fin dall’inizio, parte del tutto rovesciata. Tuttavia, quando Alcide De Gaspari, dopo aver firmato le clausole così punitive e umilianti di quell’accordo, fa ritorno dalla Francia, dal suo discorso, all’aeroporto di Ciampino (Roma), emerge subito invece la volontà di non abbassare la testa e di elaborare al più presto un piano per intraprendere l’imminente ricostruzione (14 – Fasanella, 2018). Per cui il FGC ci dovrebbe spiegare come sarebbe potuta nascere, ad esempio, una politica energetica italiana che fosse stata indipendente e adeguata al fabbisogno della sua popolazione ma anche al contempo conciliante rispetto agli interessi contrapposti di Francia e Regno Unito in Africa e in Medio Oriente (15 – Fasanella, 2018).
Come si sarebbero potute risolvere, ancora, se non nell’ambito di una prospettiva nazionale, le cocenti contraddizioni tra nord e sud Italia, che ci trascinavamo dietro dall’Unità? Come si sarebbe potuto incentivare, ad esempio, una politica di risparmi privati in assenza di una cultura contadina e pre-moderna che era diffusissima in Italia, mentre era del tutto assente nelle altre regioni del nord Europa? Come si sarebbe potuto perseguire la via della piena occupazione, se non attraverso il ripristino e l’allargamento di una massiccia industria pubblica (l’IRI) di cui, viceversa, il nord Europa faceva benissimo a meno, a causa della Rivoluzione Industriale che aveva permesso, già da due secoli, lo sviluppo di grandi capitali privati? Come si poteva, insomma, ricominciare a costruire l’Italia senza fare i conti, da una parte, con l’esperienza appena conclusa del fascismo e, dall’altra, con una posizione economica subordinata rispetto allo scacchiere europeo? Considerando una cultura contraddistinta, con le esigenze di una popolazione che, in definitiva, erano del tutto incompatibili rispetto a quelle del continente?
5. La questione nazionale
Non a caso, l’intenzione di lavorare affinché si creasse un’egemonia nazional-popolare, che potesse condurre l’Italia fuori la sua arretratezza e la rendesse un paese socialista avanzato in grado di collaborare nell’ambito di una prospettiva internazionale, era una questione precedente al frontismo, e fu fatta oggetto di molte riflessioni da parte di Antonio Gramsci. L’Italia era divisa a metà, con una classe di contadini concentrati soprattutto nel Mezzogiorno e un proletariato industriale situato al nord, che erano mossi da interessi divergenti ma che si domandava loro di diventare organici. Tale sinergia non doveva strutturarsi però in una forma politica auto-gestita di classe, quanto piuttosto in una dimensione statale a carattere elettivo e democratico nella misura in cui, tra il 1919 e il 1924, Gramsci aveva preso le distanze dal modello sovietico dei consigli di fabbrica (16). Così accade che oggi l’orizzonte ideologico de L’ordine nuovo, la rivista fondata dall’intellettuale sardo, e che dà il nome anche a questa testata on line, viene di fatto sabotato dai suoi giovani inesperti redattori e dirigenti.
Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucelo della questione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte di maggioritari* (*nota: Bolscevichi), si vede che la loro originalità consiste nel depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica. Il concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale concetto non parlino o solo lo sforino. Una classe di carattere internaizonale in quanto guida di strati sociali strettametne nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve ‘nazionalizzarsi’ , in un certo senso, e questo senso non è d’altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di un’economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie» (16 – Gramsci, 2012).
Non si è dimenticato invece della lezione gramsciana Carlo Formenti (2016), il quale ne La variante populista (18) osserva l’impossibilità di individuare un unico ceto in grado di condurre il conflitto di classe come invece poteva ancora avvenire fra metà degli anni ’40 e metà degli anni ’60. Difatti, la contraddizione economica ha finito progressivamente per coinvolgere una pluralità di categorie sociali solo apparentemente differenti tra loro. E pertanto, la frammentazione della contrattazione nazionale a partire dal pacchetto Treu del 1997; le molteplici e fitte configurazioni con le quali la catena del valore è stata segmentata all’interno del paese; e l’asservimento diretto al capitale finanziario di gruppi eterogenei di lavoratori, che vanno dal piccolo imprenditore fino al libero professionista, passando per l’artigiano, l’impiegato statale, così come per l’operaio, i precari e i sotto-occupati, impone la necessità di proporre un patto pluriclasse in grado di ricomporre l’Io politico, interrelato e composito, in un’unica compagine. Questo, in fondo, è il desiderio inconscio delle masse oppresse, eppure innocue in quanto reificate, che tuttavia, secondo Jameson, ancora anelano ad una Totalità comunitaria oggi viceversa scissa e assente. Ma l’unità del soggetto, conclude Formenti, a causa di interessi particolari non riconducibili immediatamente sul piano internazionale, almeno in una prima e lunga fase di questa lotta, potrà darsi solo nell’ambito di un contesto spaziale e simbolico che torni sotto la gestione di un governo popolare: la nazione.
6. Conclusione. L’attuale contraddizione è un problema storico
C’è da chiedersi se le nuove generazioni di comunisti e di socialisti saranno mai in grado di porre sotto critica la propria ideologia libertaria per mezzo della dialettica, strumento privilegiato fra gli altri, in grado di verificare costantemente le categorie storiche, le quali continuano ad essere attive e ad influenzare la nostra prassi nel presente, se non affronteranno mai il nodo cruciale del “pensiero debole”, maturato durante gli anni ’70 del secolo scorso, attraverso il post-moderno americano, il reflusso francese, e l’operaismo italiano, dal quale sono state pienamente travolte.
Sarà davvero mai possibile che possano unirsi in una nuova lotta di liberazione che, dal Risorgimento, è emersa ancora una volta con la Resistenza, e giunga fino al Recesso dai Trattati Europei?
Non lo sappiamo. Intanto però c’è chi invece lo ha già fatto e ha ritrovato il filo conduttore di un rinnovato scontro tra capitale e lavoro che fino al 1992 si era potuto gestire democraticamente nell’ambito di una cornice nazionale. Perché è solo entro quest’ultima che il conflitto di classe aveva avuto storicamente la capacità di salvaguardare l’Italia rispetto agli accordi capestro promossi al suo esterno (la CECA); così come disciplinare il capitale al suo interno (l’IRI; il Piano del lavoro della CGIL; e lo Statuto dei lavoratori). Diversamente da strutture politiche sovrannazionali come l’Unione Europea che, prive di controllo democratico, difenderanno sempre gli interessi di classi nazionali e internazionali avverse ai lavoratori, la nazione invece si presenta ancora oggi come lo spazio più moderno del pensiero progressista dove, attraverso una lotta pluriclasse, i partiti politici delegati dal basso, hanno ancora la facoltà di esercitare la loro sovranità sulla politica economica mediante il parlamento. Si tratta di questa auto-determinazione da parte del popolo, e non altro, il significato cui si riferisce il 2° comma del 1° articolo della Costituzione:
[…] La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione » (19).
Sovranità che, viceversa, i Trattati dell’Unione Europea, in concomitanza con una classe politica italiana sprezzante del nostro paese e del lavoro, ci hanno finora sottratto, neutralizzando completamente, a partire da Maastricht, gli articoli principali della Costituzione, inclusa la parte dei rapporti economici (20). Dunque, rispetto alle analisi espresse nell’articolo del L’ordine nuovo, che sovrappone in un pasticcio post moderno destra sociale, populismo, e Lega Nord, con l’intera storia repubblicana, al contrario, una parte significativa delle radici che fondano il “sovranismo costituzionale” nasce come recupero di una nobile corrente politica riformista-radicale e socialista, tesa all’applicazione della carta costituzionale.
Il sovranismo costituzionale, oggi come allora, vorrebbe il ritorno di una piena democrazia popolare in grado di esercitare il suo potere sull’economia e sulla finanza in difesa del lavoro, in risposta quindi, sia al soggettivismo astratto della destra liberale nazionale e internazionale, sia contro l’universalismo vuoto della sinistra liberale nazionale e internazionale.
Note:
(1) Stefano D’Andrea, O la Costituzione della Repubblica italiana, o l’Unione Europea, in Appello al Popolo, 25 /12/, 2011. https://appelloalpopolo.it/?p=5334
(2) Contro le alzate di scudi, dovute ai sospetti di un potenziale complottismo che possono suscitare queste ultime parole, basta leggere la vasta storiografia italiana e straniera su quest’argomento. Mi riferisco, ad esempio, ai piani d’intervento della CIA nel caso di una vittoria del Fronte Democratico Popolare (l’alleanza fra PCI e PSI) contro la DC, durante le elezioni repubblicane del 1948, in Paul Gingsburg, Storia d’Italia, dal dopoguerra a oggi, Vol. I, Einaudi, Torino, 2018; passando poi in rassegna i vari tentativi di colpo di stato, primo fra tutti il Piano Solo del 1964, ordito dal generale De Lorenzo, ai danni del primo compromesso storico tra DC e PSI con il governo Moro-Nenni; così come quello successivo del 1970, organizzato dall’ex missino, Julio Valerio Borghese, personaggio chiave dell’organizzazione inglese Stay-Behind, ridenominata in seguito Codice Gladio, in Giovanni Fasanella, ll Puzzle Moro, Chiarelettere, Milano, 2018.
(3) Ricordo qui alcune conferenze più significative: convegno Asimmetrie, Montesilvano, 2012; convegno di Rimini della MMT, 2012; convegno L’euro contro l’Europa?, Roma, 2013; Convegno Contro l’euro, per andare dove?, Chianciano Terme, 2013; Convegno Oltre l’euro. La sinistra. La crisi. L’alternativa, Chianciano Terme, 2014. Ricordo, inoltre, fra i testi più famosi che animarono quel dibattito intorno al 2011: Lucio Barra Caracciolo, Euro (o?) democrazia costituzionale; Alberto Bagnai, Il tramonto dell’euro; Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa; Aldo Barba e Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa; Vladimiro Giacché, La Costituzione nella palude e Auschluss. L’annessione; Nino Galloni; La moneta copernicana e Chi ha tradito l’economia italiana?, Paolo Barnard, Il più grande crimine. Visto l’ambito socialista della discussione, preme ricordare qui il filosofo marxista Costanzo Preve, per il suo supporto diretto al movimento sovranista anche attraverso lo scritto La questione nazionale alle soglie del XXI secolo, Divergenze, Belgioioso (Pv), 1998; e il marxista Domenico Losurdo, estraneo in realtà al dibattito sulla sovranità italiana, ma non a caso molto letto in questa area proprio per il suo chiaro supporto storiografico alla questione nazionale a guida popolare del secondo mondo e delle ex colonie del terzo mondo, così come per la sua lotta senza tregua contro il liberismo.
(4) Sulla lenta spoliazione della sovranità democratica e repubblicana durante la lunga parabola del secondo dopoguerra, fino all’epoca attuale, dove viene affrontato in modo magistrale l’illusione dell’internazionalismo contrapposto al modello costituzionale e nazionale, rimando al quadro generale che offrono Thomas Fazi & Wililam Mitchell, in Sovranità o barbarie, il ritorno della questione nazionale, Meltemi, Roma, 2018.
(5) Walter Benjamin, Tesi – VI, in Tesi sulla filosofia della storia, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 2006.
(6) Vedi l’articolo di Tiziano Censi, Le radici del sovranismo, in L’ordine nuovo, 06/04/2020, Qui: https://www.lordinenuovo.it/2020/04/06/le-radici-di-classe-del-sovranismo/?unapproved=6&moderation-hash=d1c7304ba23b4d32aae69794a2b5353e#comment-6
(7) Pasquale Amato, Il PSI, tra frontismo e autonomia (1948 al 1954), Lerci, Milano, 1978.
(8) Costituzione, art. 52.
(9) Palmiro Togliatti, Il patriottismo dei comunisti, in Rinascita, 1945.
(10) Riccardo Bellofiore, La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Trieste, Asterios, 2012, cit. pg. 82.
(11) Per un’analisi culturale dei processi di alienazione della forza lavoro nell’ambito della libera circolazione dei capitali durante il secondo novecento, rimando a Frederic Jameson, Il post-moderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Garazanti – collana I Coriandoli, Milano, 1989. Secondo Jameson, il soggetto universale del conflitto di classe (la Totalità in senso hegeliano) è certamente una realtà comunitaria, ma non è chiaro se si possa ricondurre nell’ambito di una prospettiva pluriclasse. L’autore non mancò tuttavia, anche in occasioni precedenti, ad esempio nelle ultime pagine del L’inconscio politico (1981), di riflettere sulla mancanza, da parte della sinistra, di una visione nazionale che venisse sottratta all’ideologia delle destre. Comunque, con il senno di poi, il bersaglio teorico, che sembra in generale descrivere l’orizzonte di senso della sinistra post-comunista, diventa sicuramente Impero di Toni Negri, anche se, a mio avviso, non rimarrebbe esclusa da critiche, a questo punto, neanche la stessa New Left (Wallerstain, Harevy, Arrighi, Anderson) la quale, nella sua impeccabile ricostruzione dei processi di accumulazione, incentrata sull’indagine del sistema-mondo, continua tuttavia a proporre inefficaci lotte anti-sistemiche di ordine internazionale, le quali finiscono inevitabilmente per coincidere spesso con le proposte post-operaiste.
(12) Su questo argomento, rimane esaustivo il testo di Luca Cangemi, Altri confini. Il PCI contro l’europeismo (1941-957), Derive Approdi, Roma, 2019, pg. 45 e 58.
(13) Lelio Basso, Intervento in Parlamento, 13 luglio 1949.
(14) Giovanni Fasanella, Il puzzle Moro, Chiarelettere, Milano, 2018.
(15) Ibidem.
(16) «Si è ritenuta spenta in Gramsci in questo periodo una tematica di carattere consiliare e se ne è ricondotta la causa a una pesante intrusione dall’esterno nello sviluppo autonomo del suo pensiero. Giudizio che ritengo discernere piuttosto da una ‘visione mitizzata’ del Consiglio di Grmasci, quando in lui vi è un’affermata continuità di ricerca dal 19 al 24 in una nuova situazione in cui viene maggiormente chiaro il carattere ‘democratico’ della concezione ordinovista come rivitalizzazione del tessuto politico e sociale del paese. Come si riflette del resto nella sua concezione del governo operaio e contadino non inteso come formula di auto-governo di classe ma riassumente tutte le rivendicazioni antifasciste dei partiti e dei ceti democratici: ‘E’ la formula che deve contenere tutti i motivi della lotta generale contro il fascismo sul piano nazionale, condotta attraverso l’alleanza degli operai con i contadini, specialmente delle masse contadine dell’Italia meridionale’», in Stefano Merli, Fronte antifascista e politica di classe, De Donato, Bari, 1975.
(17) Antonio Gramsci, Lettere dal carcere – Note sul Machiavelli, la politica e lo Stato moderno, Editori Riuniti, 2012.
(18) Carlo Formenti, La Variante populista. La lotta di classe nel neoliberismo, Derive e Approdi, Roma, 2016.
(19) Costituzione, art. 1, comma 2.
(20) Costituzione, I rapporti economici, dal 35 al 47, Titolo III.
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