Riflessioni per un neosocialismo (parte I)
di MARCO DI CROCE (FSI-Riconquistare l’Italia Roma)
“Noi siamo tutti neosocialisti. Contro l’autocrazia, per la democrazia, contro l’elitismo, per il ritorno all’egemonia dei partiti popolari.” Con queste parole il presidente Stefano D’Andrea si è rivolto alla piazza di San Giovanni a Roma lo scorso ottobre. Cosa significa essere neosocialisti? Per rispondere bisogna capire cosa significhi essere socialisti, il che presenta qualche problema. Sia perché le origini di un fenomeno non lo contengono in loro stesse come cause di effetti, così da poterne essere una specie di definizione, sia perché il socialismo è stato un fenomeno politico e intellettuale duraturo e internazionale, che ha avuto dentro sé correnti anche molto eterogenee. Il socialismo è una di quelle cose che conosciamo con il nome di ideologia. Qualche osservazione sull’origine di questo termine non è inutile.
1. Alla sua origine il termine “ideologia” è legato a una gnoseologia sensista elaborata in Francia sotto l’influenza dell’empirismo inglese (Locke)
Sappiamo che il termine “ideologia” assume un primo significato nel contesto dell’illuminismo francese, il quale è per la gran parte un lungo commento alla gnoseologia di Locke (ed è forse il caso di notare già ora che l’empirismo inglese fu essenzialmente una reazione al dubbio cartesiano circa l’effettività del corporeo e la possibilità di isolare il pensiero come qualcosa di diverso dal corporeo). Lo possiamo individuare negli Élémens d’idéologie e nella Mémoire sur la faculté de penser, De la métaphysique de Kant et autres textes di Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy nella fine del Settecento.
De Tracy subisce in particolare l’influenza di Étienne Bonnot, abate di Condillac, amico di Diderot e Rousseau, formatosi in un collegio gesuita. Nell’Essai sur l’origine des connaissances humaines l’abate di Condillac seguiva e rinforzava la critica lockiana alle idee innate e al concetto di sostanza, individuando il fondamento di ogni conoscenza nella sensazione. Anche le idee più complesse sono il frutto della riflessione, e dunque della modifica, del dato della sensazione. Altre considerazioni sarebbero irrilevanti, quel che conta è notare il sensismo di Condillac, ribadito nel Traité des sensations. Quando de Tracy parla di ideologia non parla di insieme di idee politiche ma di conoscenza dell’idea, la cui origine è da rintracciare nel senso (è anche il caso di ricordare che nel mezzo del Settecento Hume passa qualche anno in Francia, prima negli anni Trenta e poi come ambasciatore negli anni Sessanta).
2. C’è un forte legame tra il concetto di ideologia e quello di liberalismo. Il liberalismo ha la sua origine nell’esperienza storica che ha dato luogo al primo concetto di ideologia.
Altri momenti della storia del termine “ideologia” ci interessano meno, a parte forse un punto. Abbiamo detto che l’illuminismo francese è strettamente legato a Locke. L’antirazionalismo (non irrazionalismo) francese e la sua prossimità all’empirismo inglese ne evidenziano anche sul piano del pensiero quello che è evidente sul piano politico: il carattere negativo. La negazione dei “diritti feudali”, che di feudale avevano ben poco (ma lo si sapeva ai tempi) e la negazione del pensiero al di fuori della sensazione.
Gli idéologues di cui parlava malamente Napoleone erano soprattutto intellettuali accomunati dal rifiuto del dispotismo, dell’oppressione caratteristica dell’antico regime, pronti a criticare il nuovo regime qualora desse prova di dispotismo. Il grande dispositivo giuridico che questa esperienza storica portò alla ribalta fu quello della costituzione in chiave anti-dispotica, contro l’esercizio arbitrario del potere da parte del monarca. Ricordiamo che è con la costituzione spagnola nel 1812 che “nasce” il termine liberale. Gli ideologi dell’illuminismo francese dunque furono, se non già i primi liberali, la loro origine.
3. Anche il socialismo ha la sua origine nell’esperienza storica che ha dato luogo al primo concetto di ideologia.
Che ne è del socialismo invece? Il socialismo ha un entroterra, nella prima metà dell’Ottocento, che solitamente conosciamo con gli occhi del Marx del Manifesto sotto denominazioni come socialismo reazionario, conservatore, utopistico. Siamo abituati, non senza qualche ragione storica, a identificare con il marxismo il socialismo vero e proprio. Senza dubbio Marx e Engels egemonizzarono, nella seconda metà dell’Ottocento, quella massa di uomini che andava definendosi socialista, ma nel frattempo era passato mezzo secolo. Va ricordato che il socialismo, ha i suoi primi pensatori già nel primo Ottocento, che ha anch’esso la sua origine, non causa, nell’esperienza storica che diede vita al termine ideologia, la stessa fonte del liberalismo.
4. Fu il liberalismo a ereditare i principi filosofici dell’illuminismo francese i quali contenevano una contraddizione irrisolta tra teoria e prassi
Fu però il liberalismo a ereditare i principi filosofici dell’illuminismo francese, principi che in Inghilterra Hume aveva portato a una conclusione peculiare, nata per rimanere confinata nell’ambito della speculazione filosofica, non per guidare la pratica, la quale invece doveva orientarsi attorno al sentimento morale (non egoistico) e all’utilità (di tutti, non del singolo a scapito degli altri). La conclusione teoretica era: non c’è conoscenza ma credenza, non certezze ma beliefs. È importante notare come Hume assumesse una prospettiva dalla quale quel che veniva messo in discussione non era il principio universale di causa ed effetto, o che “fuori” ci fossero cause ed effetti, fenomeni naturali determinati, l’ordine della natura insomma, ma che noi potessimo conoscere tutte queste cose, che avessimo accesso legittimo a queste nozioni e a queste conoscenze.
L’argomentazione di Hume circa il principio di causalità non riguarda la natura e il suo ordine ma il nostro concetto e la nostra conoscenza della natura e di questo ordine. L’idea di Hume è che il concetto di una connessione necessaria tra due eventi naturali (causazione) sia una costruzione a qualche titolo illegittima, una specie di finzione che ha in realtà il suo fondamento nell’abitudine e nella ripetizione di esperienza contingente somigliante fino alla nascita di una aspettativa.
La manovra pratica era: non c’è principio morale razionale, ma c’è un sentimento morale che ci fa disprezzare in noi e negli altri ciò che è deleterio per la comunità in cui viviamo, e apprezzare e lodare ciò che è benevolo per essa. Di qui derivava anche un relativismo morale che non va confuso con lo scetticismo e che consisteva nella possibilità per diverse comunità di organizzarsi in modo diverso e perciò di essere esposte a rischi diversi e di trarre beneficio da pratiche diverse, risultando dunque in società in cui le azioni che cadono sotto i termini “buone” e “cattive” non sono sempre le stesse.
Questa posizione aveva dentro di sé una contraddizione tra teoria o processo conoscitivo da una parte e pratica dall’altra, e trovò, con qualche ovvio cambiamento, una discreta fortuna nell’Ottocento. Dimostrarlo richiederebbe un lavoro lungo e fingere di dimostrarlo sarebbe indegno, ma possiamo ricordare una questione chiave circa il positivismo, ovvero quella teoria della conoscenza che fu cara al liberalismo ottocentesco. Lo schema migliore della teoria della conoscenza del positivismo è stato dato, forse, da Carl Gustav Hempel e Paul Oppenheim negli anni ’40 del Novecento, quando il positivismo aveva trovato un secondo momento di fortuna, dopo che, nel primo dopoguerra, la fenomenologia e il neokantismo avevano egemonizzato il dibattito intellettuale.
Nel loro articolo del ’48, Studies in the Logic of explanation, Hempel e Oppenheim hanno formalizzato quello che oggi è noto come il modello nomologico-deduttivo. Secondo questi autori, la spiegazione scientifica ha la forma di un argomento deduttivamente valido in cui un primo insieme di premesse espone una serie di fatti o stati di cose, un secondo insieme di premesse espone leggi generali e da questi due insiemi di premesse deriva deduttivamente come conclusione l’evento o stato di cose da spiegare. Con questa prospettiva di spiegazione scientifica è abbastanza chiaro che il problema stia nel determinare la verità del secondo insieme di premesse, quello delle leggi naturali.
La soluzione al problema della verità delle leggi è duplice: verità per convenzione e verità per ipotesi, dove la seconda è tanto più probabile quanti più sono i casi che riesce a spiegare. Il problema humiano della conoscibilità delle cose, ovvero della conoscenza delle leggi naturali (della loro forma determinata e della loro esistenza), rimane. La conoscenza della natura è ottenuta per induzione, come è inevitabile, ma per farla (l’induzione) e per perseguire il fine della conoscenza della natura, o meglio della produzione di credenze affidabili su di essa, rimane costante la necessità di affidarsi al presupposto indimostrato di un ordine legale completo della natura, cioè al principio della legalità di quella sostanza inesperibile che si pone a fondamento della nostra esperienza della natura.
Questo principio è da una parte convenzione, nel senso che è accettato senza altra ragione all’infuori del suo ruolo costitutivo rispetto all’impresa della conoscenza della natura (se non si presupponesse l’ordine naturale a fondamento delle nostre impressioni sensibili, non ci sarebbe indagine da svolgere). D’altra parte, è una specie di ipotesi non falsificabile che diventa più probabile via via che l’ordine della natura diventa noto. E però questa filosofia ha un che di sorprendente, cioè che, così inteso, il principio su cui si basa ogni conoscenza di ciò che è reale è un principio a cui non si può aderire completamente, non per i motivi sopra esposti, ma perché se gli si prestasse fede e lo si prendesse per buono all’infuori dell’impresa scientifica, ogni prospettiva pratica rimarrebbe annullata sotto il peso di un ordine naturale che comporta l’illusorietà della libertà (si pensi all’idea delle leggi della sociologia di Comte).
Ancora peggio in realtà, Georg Henrik von Wright ha dimostrato in modo convincente in Explanation and Understanding (1971), che persino la ricerca scientifica (cioè la scienza nella sua parte sperimentale, non in quella puramente teorica) diventa in realtà impossibile sotto queste premesse, perché la scienza naturale ha bisogno di leggi, le leggi hanno bisogno di esperimenti per essere formulate e testate, e gli esperimenti sono azioni. Von Wright ha mostrato con successo che se non si presuppone la libertà dello sperimentatore, il concetto di esperimento e la sua capacità dimostrativa decadono. Diversi autori hanno preferito diverse soluzioni, date queste premesse, rispetto al problema del rapporto contraddittorio tra il principio richiesto per la teoria e la possibilità della prassi.
A noi interessa rilevare che il problema c’è e che queste soluzioni non possono ottenere nulla fintanto che la prospettiva rimane questa: o si separano teoria e prassi o si annulla la prassi in una teoria deterministica del tutto o si annulla la teoria nella prassi in una concezione irrazionalistica della conoscenza.
[continua]
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[…] Qui la prima parte del saggio […]
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