Riflessioni per un neosocialismo (parte II)
di MARCO DI CROCE (FSI-Riconquistare l’Italia Roma)
5. Tanto il liberalismo quanto il socialismo ebbero alle loro spalle filosofie reazionarie nei confronti della filosofia moderna
A questo punto chiediamo quali siano i principi filosofici che il socialismo adottò, ammesso che non abbia ereditato o non abbia voluto ereditare quelli dell’illuminismo francese. È infatti il non aver ereditato i principi dell’empirismo inglese ad aver permesso una riflessione critica nei confronti del liberalismo. In ambito marxista potremmo dire che il problema di cui stiamo parlando, quello della filosofia del socialismo, o del marxismo (il perché è subito spiegato), si pose solo relativamente tardi, dopo la morte di Marx, con scritti di Engels come l’Anti-Dühring e la Dialettica della natura.
Alla morte di Engels il marxismo si avviava alla divisione nelle due linee del revisionismo di Bernstein, il quale avrebbe fatto da battistrada al neokantismo di Marburgo (che con Kant non aveva molto in comune, ma che tuttavia portò non a caso per la prima volta all’ipotesi del socialismo nella democrazia parlamentare, senza dittatura del proletariato), e dell’ortodossia di Kautsky (hegelismo rovesciato). Il marxismo rimase nel solco di Engels anche in Russia con Lenin e Bucharin, seppure, come è ovvio, con delle discontinuità. In questa storia la vicenda italiana costituisce una eccezione, per via delle riflessioni originali di Antonio Labriola, sulla scorta della riforma della dialettica hegeliana di Bertrando Spaventa e delle Tesi su Feuerbach di Marx, e poi dell’allievo di Labriola, Benedetto Croce, e di Giovanni Gentile e infine di Rodolfo Mondolfo e di Antonio Gramsci.
Da Labriola fino a Gramsci l’idea centrale rimase la necessità di una filosofia che non fosse deterministica, cioè, potremmo dire, che non facesse sparire la prassi nella teoria (come, possiamo dire ora, poteva accadere per il positivismo). Nella ricerca di questa filosofia Croce e Gentile ritennero di dover abbandonare il marxismo, questo è importante ricordarlo. Ma questa soluzione veniva cercata partendo dalla convinzione che premesse hegeliane potessero portare al raggiungimento di questo scopo. Dove il positivismo rimaneva incastrato, cioè nella distinzione tra soggetto e oggetto (soggetto e natura), l’hegelismo aveva sostenuto l’unità tra soggetto e oggetto.
Dove il positivismo rimaneva incastrato, cioè nelle riflessioni sul metodo per la conoscenza dell’oggetto, Hegel aveva sostenuto l’unità del metodo e dell’oggetto. Il marxismo, e dunque il socialismo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, orfano dei principi filosofici dell’illuminismo francese, li trasse prevalentemente da quella che fu la reazione tedesca alla filosofia di Kant, l’idealismo tedesco, in particolare nella persona di Hegel.
Se, dunque, il liberalismo ebbe la sua filosofia essenzialmente sotto il segno dell’empirismo inglese, il socialismo non la trovò in quel Kant che ad esso aveva risposto con efficacia nella Critica della ragione pura, ma in coloro che proprio contro di lui, seppure proclamandosi continuatori e perfezionatori della sua filosofia, avevano reagito. Che questa operazione, nonostante i proclami dell’idealismo tedesco, fosse contro la filosofia di Kant e non il suo compimento, ce lo dice lui stesso nel 1796, in quello scritto il cui titolo si traduce solitamente con D’un tono da signori assunto di recente in filosofia e che era rivolto contro Fichte, un tal dei tali che sosteneva di compiere il sistema di cui lo stesso Kant era autore.
Kant ne denunciò l’irrazionalismo e la gnoseologia privata, sottratta al vaglio della discussione pubblica: la conoscenza non era universalmente comunicabile secondo Fichte, non si otteneva con argomenti razionali ma con l’intuizione dell’intelletto, una facoltà che secondo Fichte avremmo. Questo ha di paradossale questa vicenda, che liberalismo e socialismo ebbero entrambi dietro di loro, nella misura in cui un’ideologia politica ha una filosofia dietro di sé, filosofie che avevano il loro elemento costitutivo nella reazione alla filosofia moderna (contro Cartesio nel caso dell’empirismo inglese e contro Kant nel caso dell’idealismo tedesco).
Ma il socialismo la trovò in quella perché orfano di una filosofia a fondamento della propria prassi e perché si strutturò più lentamente, giungendo a maturazione solo più tardi, quando ormai il filo della tradizione moderna, che si era interrotto bruscamente dopo Kant, era diventato difficilmente recuperabile, dato che gli idealisti tedeschi si erano spacciati per suoi successori e continuatori, rendendo egemonica un’interpretazione dell’opera kantiana assai fuorviante. Si trattò di un’operazione che condannò gli studi kantiani a difficoltà esegetiche per i successivi due secoli e che ci sono ancora oggi.
6. Il socialismo di matrice hegeliana contiene, al pari del positivismo, una contraddizione tra teoria e prassi, schivata nell’annullamento della prassi nella teoria
Chiunque abbia letto Hegel sa che questi considerò Kant come un empirista, accostandolo a Hume. Allo stesso tempo, di autori moderni come Spinoza Hegel trova corretti i tratti più propriamente medievali, ne loda le caratteristiche medievali e ne ignora gli elementi di novità. Lo dice Hegel stesso nel §28 dell’Enciclopedia, che «la vecchia metafisica aveva un concetto più alto del pensiero che non quello ch’è venuto di moda ai tempi nostri. Metteva cioè per base che quello che per mezzo del pensiero si conoscesse delle cose e nelle cose, fosse il solo veramente vero”.
La critica di Hegel è molto lontana da quella dell’empirismo inglese, ma l’obiettivo polemico è in realtà lo stesso. Contro Cartesio, che voleva pensare il pensiero da solo, escludendo l’esteso, il corporeo, la figura (quello che in Kant si chiama intuizione), l’empirismo aveva sostenuto che ogni pensiero fosse pensiero di cose sensibili e che fosse dunque inseparabile il pensiero dalla sensazione. Contro Kant, Hegel sostiene che la concezione del pensiero come di qualcosa da cui rimane fuori il mondo e che da solo non basta a conoscerlo è una concezione più bassa del pensiero rispetto alla vecchia metafisica (ovvero quella medievale, visto che già Cartesio credeva così, e quella wolffiana o neoleibniziana, che con Leibniz aveva poco a che vedere, e che aveva letto Leibniz come un restauratore della filosofia medievale e contro la quale aveva scritto Kant).
Il programma di Hegel è un ritorno alla filosofia premoderna con le dovute correzioni. Ma se per gli empiristi il pensiero è sempre legato al dato sensibile, e per questo non lo si può separare dalla sensazione, per Hegel il pensiero è la sensazione, o meglio la sensazione è pensiero, la natura è tutta già pensiero. Conviene ricordare che per Hegel quella di Newton non era una vera scienza e che non potesse avere progresso, un abbaglio non da poco. Laddove l’empirismo che diede i principi al liberalismo elaborò una reazione alla filosofia moderna che ebbe come risultato la scissione di teoria e prassi, la soluzione hegeliana propose la loro perfetta e compiuta unità nel pensiero, annullando l’una nell’altra: tutto è già noto, la logica è al tempo stesso scienza naturale, la natura è pensiero che si solidifica, si estrania da sé nell’oggetto, producendolo.
Dove sia la possibilità di concepire l’azione ora che tutto è determinato a priori dallo “spirito”, cioè da Dio, e ne è emanazione, è una domanda che bisogna fare e a cui non c’è risposta che non sia questa: da nessuna parte. È qui il caso di ricordare che la confutazione che aveva fatto Kant dell’argomento “ontologico” per l’esistenza di Dio, sostenendo che pensiero ed esistenza sono due cose diverse e che dal concetto non si può derivare nessuna conoscenza circa l’esistenza della cosa (nessuna conoscenza “sintetica”), fu criticata da Hegel sostenendo che questo fosse ovvio per gli oggetti finiti, sul piano dell’intelletto, ma che fosse falso per quelli infiniti (Dio) non comprendendo che il punto fosse proprio quello di mettere almeno per un secondo in discussione la certezza del darsi di questi oggetti infiniti.
Cioè, dove Kant aveva liberato la filosofia moderna da un residuo anselmiano, quello dell’intuizione dell’esistenza nell’essenza, Hegel propose di articolare l’intera filosofia proprio attorno a questa intuizione, rielaborandola. La stessa obiezione all’argomento kantiano la ripeterà Croce nella sua Logica. Ancora istruttivo è che dove Kant aveva sostenuto che solo l’intelletto, riferendosi a oggetti naturali, produce conoscenza di oggetti reali, mentre la ragione, riferendosi a supposti oggetti soprasensibili, produce paralogismi, antinomie, illusioni dialettiche, Hegel ribalta completamente i valori attribuiti a queste facoltà e sostiene l’illusorietà dell’intelletto che giudica delle cose naturali e finite, e la verità della ragione che giudica delle cose soprasensibili e infinite.
7. Il socialismo di matrice kantiana è stato vittima di anacronismi ed egemonizzato dalle critiche rivolte a Kant nell’Ottocento
D’altra parte, la critica hegeliana e in generale dell’idealismo tedesco a Kant fu tanto fortunata che, ai tempi dello Zurück zu Kant! nella seconda metà dell’Ottocento il neokantismo fece molta difficoltà a collegarsi a una tradizione, quella della modernità di Cartesio-Spinoza-Leibniz-Kant, che era stata repentinamente interrotta dall’idealismo tedesco. L’anacronismo condannò i neokantiani a grossi malintesi mentre nel marxismo la critica che l’idealismo aveva rivolto a Kant rimase egemone. A questa si aggiunse la critica fatta dallo stesso Marx ne L’ideologia tedesca alla filosofia pratica kantiana la quale veniva interpretata come l’adattamento delle tesi pratiche della borghesia alla economicamente attardata Germania.
Così anche il marxismo che cercò la sua filosofia in Kant ebbe la sfortuna di non riuscire a trovarne che l’ombra. Tuttavia, dopo la Rivoluzione francese, Kant aveva sostenuto che teoria e prassi fossero strettamente connesse e specificamente in sede politica, mentre la borghesia che gli era contemporanea era lontana dall’avere in lui, foss’anche inconsapevolmente, un teorico. Molto, in questo senso, giocò la confusione della filosofia pratica kantiana per una filosofia morale che doveva bastare da sé alla politica, la confusione della Critica della ragione pratica per una filosofia morale che in assenza di altro doveva bastare ad essere politica, cioè che la politica kantiana fosse un’etica, ciò che è molto lontano dalla verità.
Solo nel tardo Novecento gli studi kantiani hanno iniziato a raggiungere un seppur minimo consenso sul significato dell’opera kantiana, nonostante questo sia rimasto continuamente contrastato da letture ancora eredi dell’interpretazione che ne era stata data dai suoi contemporanei e dagli immediati successori, interpretazione fatta di equivoci che, curiosamente, proprio a partire dagli anni Novanta sono tornati ad avere una certa popolarità.
8. Il socialismo italiano cercò la filosofia per il marxismo in Marx. In vista di questo progetto
Gramsci confutò materialismo e idealismo ed elaborò e utilizzò il concetto di egemonia. Tuttavia, questo progetto rimase incompiuto e l’unica possibilità di riferirsi direttamente a questa filosofia fu in termini negativi. Il socialismo di ispirazione specificamente marxista, ovvero quello che volle cercare una filosofia per il marxismo in Marx, è un socialismo soprattutto italiano, il quale comunque fu molto influenzato dall’hegelismo, e questo va tenuto a mente ma non sarà al centro di quanto segue.
Fu nell’opera di Antonio Labriola che Gramsci rinvenne un criterio nuovo per leggere Marx, quello cioè di cercarvi in nuce la filosofia che sola poteva trovarsi dietro i suoi scritti. Si trattò dunque di un’opera ai limiti della produzione creativa, rinvenire una filosofia implicita in scritti che di filosofia non erano, fatta qualche eccezione come le Tesi su Feuerbach, che furono infatti un luogo centrale per il Gramsci interprete di Marx e che già Gentile aveva indicato come una fonte di Antonio Labriola e del suo comunismo critico, insieme alla riforma spaventiana della dialettica hegeliana.
È qui che nasce la filosofia della praxis, un’espressione tutta italiana, che in Gramsci costituisce il sostituto del materialismo storico, perché «quando nelle scienze si trova qualche cosa veramente nuova, bisogna appropriargli un vocabolo affatto nuovo, acciocché l’idea rimanga precisa e distinta». Ciò sta ad indicare che per Gramsci quello di Marx non era mero rovesciamento della dialettica hegeliana (interpretazione, questa, che fu comune a buona parte del marxismo e che portò a un oscillamento tra la sofferenza del problema di Hegel invertendone le parole in un panteismo economicista e quello del positivismo), e dunque non materialismo anziché idealismo, ma qualcosa di diverso da entrambi.
Infatti, la filosofia della praxis in Gramsci va di pari passo con la critica al materialismo di Bucharin esplicitamente e dello stesso Lenin implicitamente. Su questo si può riflettere: Gramsci, nel carcere, un uomo di spicco della politica italiana, sente l’esigenza di scrivere un quaderno di filosofia, di fare una doppia confutazione di idealismo e di materialismo per accedere a qualcosa di nuovo in cui la prassi non sia annullata nella teoria, né la teoria annullata in una prassi mistica, né queste due scisse nella contraddizione del positivismo.
A questo punto bisogna riflettere su due questioni. Una, se questa interpretazione di Marx sia accettabile, un’altra, se questa filosofia estratta da Gramsci a partire da Marx abbia avuto successo nel suo proposito di non cadere nella scissione di teoria e prassi o nell’annullamento dell’una nell’altra. Sul primo punto si deve confessare l’ambiguità degli scritti di Marx, sia perché ricavare una filosofia da scritti che di filosofia non sono è un’operazione che rasenta il voler far parlare i muti, sia perché è molto difficile distinguere le affermazioni che da questa supposta filosofia deriverebbero da quelle che hanno una funzione politica di infervoramento del lettore.
Passaggi che suggeriscono una visione deterministica delle cose in Marx ci sono. Quanto questi siano una forma retorica è difficile dirlo. D’altra parte, se si decide in anticipo che quello di Marx non è né materialismo né idealismo allora la filosofia nascosta nello scritto avrà proprio la forma di una siffatta filosofia. La critica di Marx a Hegel non è senza intelligenza e sembra mirare proprio all’identità della natura con il pensiero, o del finito con l’infinito, sotto il pensiero o sotto l’infinito. Marx accusa Hegel di misticismo logico.
Ma a tratti Marx sembra voler invertire i termini di un’equazione lasciandola immutata. Tuttavia, nelle Tesi su Feuerbach, un testo composto di undici paragrafi stringati, Marx
va chiaramente verso una concezione del reale come modificabile da una prassi che non è già determinata dall’ambiente, perché l’ambiente stesso è a sua volta determinato dalla prassi, cioè ambiente e prassi si determinano reciprocamente. Ma come ciò avvenga, come ciò sia possibile senza contraddizione, questo la filosofia dovrebbe dire, altrimenti si fa l’errore di scambiare le intenzioni alla base del progetto filosofico per i risultati che il progetto compiuto raggiunge: non è determinismo perché ho detto che non voglio che sia determinismo.
Il risultato va sì interpretato con l’aiuto della conoscenza delle intenzioni, ma va giudicato solo per ciò che è. Per questo è così problematico il progetto gramsciano del rinvenimento della filosofia di Marx dai suoi testi. Quel che può ricavare è al massimo una concezione confusa delle cose, ma senza alcuna prova, senza alcun metodo che la dimostri vera. Per questa ragione tale concezione non può che rimanere molto confusa, perché senza l’argomento che la proverebbe manca il criterio necessario per stabilire il suo significato preciso.
Se consideriamo, invece, l’opera di Gramsci, qui troviamo un cominciamento di una filosofia della praxis. Ma in Gramsci molto si ferma ai primi passi. La confutazione dell’idealismo, la confutazione del materialismo. Poi inizia subito il lavoro con la filosofia della praxis per interpretare il mondo. La filosofia della praxis, che è la condizione di possibilità del concetto di egemonia gramsciano, è messa alla prova, è soggetta a sperimentazione sul campo tramite il concetto di egemonia, che ne sarebbe una conseguenza, perché questo è ciò che Gramsci, politico, sa fare meglio e ha le forze e forse il bisogno di fare. È forse anche ciò che mantiene in lui viva la sensazione di non essere impotente tra le mura del carcere: applicare, mettere in pratica il concetto di egemonia.
È tramite questa sperimentazione che il concetto viene perfezionato e che, allo stesso tempo, Gramsci evita di perdere il suo proposito, quello di una filosofia del rapporto reciproco tra teoria e prassi, nelle spine dell’argomentazione razionale. Gramsci salta direttamente alla prima conseguenza di una filosofia diversa, da politico sa che l’azione esiste e sa che questa è in un rapporto di reciproca determinazione con la conoscenza, e non si spende per allargare quella concezione che è la filosofia della praxis, così da includervi una spiegazione del come teoria e prassi siano in rapporto reciproco. Perciò le condizioni di possibilità di questo primo risultato rimangono sullo sfondo oscuro del passaggio che dovrebbe avvenire dalla confutazione di materialismo e idealismo al concetto di egemonia, ovvero una filosofia critica, la filosofia della praxis.
In parte questo si spiega anche con le grandi difficoltà imposte dalla condizione di carcerato in cui Gramsci si trovava quando scriveva. Il punto però è che persino in questo caso noi dovremmo andare a ricavare la filosofia contenuta in nuce dietro all’uso gramsciano del concetto. Se per questo intendiamo una concezione del reale, la cosa è sicuramente più facile con Gramsci che con Marx, visto che per lo meno Gramsci aveva in mente il progetto di arrivare a questa filosofia e visto che l’uso, l’applicazione del concetto di egemonia è, in Gramsci, sia risultato sia metodo per il raggiungimento di questa concezione. Tuttavia, se accettiamo che la concezione senza prove che la giustificano è solo proposito senza coscienza dei mezzi (prove) per raggiungerlo comprendiamo quanto confusa sia destinata a rimanere questa concezione.
Il socialismo italiano fu, dunque, rispetto al problema della filosofia del socialismo, il più avanzato di tutti, proprio perché cercò la filosofia del socialismo dove filosofia non c’era e dunque andava costruita. Nonostante non sia mai pervenuto positivamente al risultato che cercava, ne ha approssimato i risultati con buona precisione, prima confutando quelle filosofie che non potevano andar bene e poi, da questa cognizione teorica negativa, passando direttamente alla riflessione politica, con l’accortezza di non fare ricorso a quelle proposizioni che nelle filosofie confutate trovavano la loro giustificazione.
[continua]
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