Immunità di gregge: sì, ma quale?
di DAVIDE VISIGALLI (RI Genova)
Il prof. J. Ioannidis di Stanford, uno tra i più grandi epidemiologi viventi, ha appena pubblicato (26 marzo) uno studio di revisione sulla letteratura riguardante i dati di sieroprevalenza di SARS-COV-2 nel mondo (più precisamente i dati arrivano in larga parte da Europa ed America). Nello studio si vogliono comparare i diversi risultati dell’Infection Fatality Rate (IFR), ossia la proporzione tra decessi e contagi in un determinato periodo come misura della gravità di malattia. Dove l’AIDS ha il 99%, il tetano e l’influenza H5N1 60%, la MERS 35% e la SARS 11%.
Lo studio riguarda 6 meta-analisi che utilizzavano i dati di 338 studi provenienti da 50 paesi diversi.
Per chi si volesse addentrare nello studio, qui il link. Leggendolo si può notare il rigore dello scienziato nel trattare i dati epidemiologici e la quantità di bias metodologici presenti in molti studi, anche in quelli più quotati, sintomo della grande incertezza conoscitiva che abbiamo.
Degno di nota, l’autore afferma senza alcun dubbio che lo studio dell’Imperial College ha sovrastimato l’IFR, escludendo studi di sieroprevalenza con meno di 100 decessi durante la finestra sperimentale e determinando l’esclusione di tutti gli studi con l’Infection Fatality Rate (IFR) più basso. Inoltre ha incluso lo studio di prevalenza italiano, nonostante fosse al di fuori dei loro rigidi criteri di inclusione.
Ma la cosa più importante che ci interessa da vicino, è che l’IFR italiano (2.5%), afferma Ioannidis, è semplicemente impossibile, è da due a 20 volte più alto di quello di tutti gli altri Paesi, facendo fortemente pensare un’enorme sottostima delle infezioni in Italia (e non come si potrebbe pensare, ad una sovrastima del numero di morti).
Altro dato su cui riflettere è la presenza di un IFR più alto nei paesi con più alto reddito, dovuto probabilmente alla differente distribuzione demografica a favore dei soggetti più anziani, ovvero i più esposti al rischio COVID-19.
L’autore spiega come mai è molto facile sottostimare la sieroprevalenza (e quindi sovrastimare l’IFR), soprattutto per via della sieroconversione (la riduzione degli anticorpi specifici) che dopo soli 2 mesi è del 30%, restando comunque su valori bassi, al limite diagnostico.
Anche errori di stima nel conteggio dei morti sono frequenti e ovviamente incidono sull’IFR. E anche la correzione con l’eccesso di mortalità causa non pochi problemi. Infatti l’eccesso di mortalità riflette sia le morti da COVID-19 che quelle per le misure prese per contrastarle. La variabilità annuale è sempre molto elevata e dovrebbe essere stratificata per l’età della popolazione. Si fa l’esempio della Germania, dove da un eccesso grezzo di 8000 decessi durante la prima ondata si arriva ad una diminuzione di 5000 decessi aggiustando i dati per i cambiamenti demografici in atto nella popolazione. Mentre in Giappone l’infezione si è distribuita molto su tutto il territorio senza causare eccesso di mortalità.
Nonostante tutte queste variabili, l’autore stima che a settembre 2020 oltre 630 milioni di persone si siano infettate nel mondo, escludendo la Cina.
Tenendo conto che a novembre in India si sia infettata circa il 60% della popolazione delle aree urbane, la stima sale a oltre un miliardo di infettati.
Estrapolando i dati con cautela si può stimare da 1.5 a 2 miliardi di infetti nel mondo a fine febbraio, all’inizio della terza ondata. L’IFR globale si dovrebbe attestare quindi sullo 0.15%.
Di sicuro l’IFR varia molto tra Paesi diversi. Si può stimare in 0.3-0.4% in Europa/America e 0.05% in Africa e Asia. ED è stato diverso (più alto) nella prima ondata rispetto alle altre.
Con l’introduzione dei vaccini, che probabilmente abbasseranno i decessi (ma non i contagi), l’IFR potrà scendere sotto 0.1%, valore pressoché identico a quello dell’influenza pandemica (l’influenza stagionale è molto più bassa, 0.002%).
L’autore conclude affermando che, nonostante tutte le difficoltà del caso, l’IFR è sicuramente molto più basso dei nostri timori e SARS-COV-2 è molto più diffuso nella popolazione di quanto pensassimo.
E ora cerchiamo di focalizzare questo interessante studio sui numeri del nostro Paese per capirne meglio la portata.
L’IFR per il nostro Paese dovrebbe essere compreso tra lo 0.15 e lo 0.4, dai dati sopra riportati. Certamente molto più basso del 3.1% basato sui tamponi effettuati e del tutto non credibile.
Giocando un po’ con i numeri, se prendessimo i decessi attuali (109847) e usassimo lo 0.4% di IFR (l’estremo più alto), otterremo qualcosa come 27 milioni 461 mila 750 infettati al 1 aprile 2021. Ben il 45% di tutta la popolazione. E siamo stati conservativi.
Altro dato su cui riflettere. Se applichiamo l’IFR di 0.4% a tutta la popolazione nazionale, avremo una stima dei morti totali se il virus avesse infettato idealmente tutta la popolazione, quindi senza lockdown e oltre: un paradosso senza dubbio. Questi decessi saranno stimati in 241 mila e 490. Molti, certo, ma pur sempre molto distante dai milioni prospettati dai modellisti e virologi. Ovviamente questo numero non tiene conto delle cure e dell’eventuale carico sanitario (come dei decessi causati dalle misure), ma credo aiuti a centrare l’ordine di grandezza.
Ora passiamo al concetto di herd immunity [immunità di gregge, ndr].
Seguendo questi dati, ad oggi abbiamo una copertura grazie all’immunità naturale del 45%, molto vicino alla quota di immunità per eradicare il virus, calcolata con la formula 1-(1/R0) e stabilita intorno al 60-70%.
Mancherebbe solo un 15-25%. Circa 15 milioni. Quasi precisamente la popolazione sopra i 60 anni di età.
Popolazione che una campagna vaccinale accorta avrebbe già provveduto a vaccinare in gran parte, lasciando perdere i sanitari ed evitando migliaia di morti anche per la terza ondata (si stima che se le prime 400mila dosi fossero andate agli over 80 avremmo potuto salvare quasi 9000 vite).
Per non parlare dell’obbligo vaccinale, sempre più insensato ad un occhio attento e scevro da becera propaganda.
Ad oggi, l’immunità naturale non causa reinfezioni, se non rarissime.
L’immunità vaccinale invece ne causa almeno il 10%, e sono sottostimate quasi sicuramente.
Ora è chiaro che se l’herd immunity è il 60-70%, ogni punto percentuale di efficacia (nel senso di protezione dal contagio) del vaccino che si allontani dal 100% andrà ad aumentare la quota di vaccinati per raggiungere la herd immunity.
Con un rapido calcolo, possiamo affermare che un vaccino che non riduca il contagio almeno del 70% non sarà mai in grado di arrivare all’eradicazione del virus.
Questi ragionamenti, insieme all’esistenza di varianti genetiche del virus che abbassano l’efficacia del vaccino, fa ritenere del tutto improbabile il raggiungimento dell’herd immunity con la sola campagna vaccinale.
Per fortuna che esiste l’immunità naturale del 70% di asintomatici!
E’ Già….