Limes

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22 risposte

  1. Eugenio Orso ha detto:

    Per ora, non solo non c'è alcuna volontà di "riappropriarsi il limite", uscendo dall'eurounionismo e sbattendo la porta alle spalle (cosa che non è realisticamente fattibile, pena i bombardamenti selettivi della NATO o "insurrezioni" armate di mercenari euroatlantici per difendere i diritti umani), ma si va spediti verso la disgustosa intesa Bersani/ D'Alema/ Casini, che forse riproporrà lo stragista Monti quale comune candidato per la presidenza del consiglio …
    Una popolazione idiotizzata (e in certi casi addirittura bestializzata) assisterà impassibile alle peggiori nefandezze.
    Ciò che domina la politica, oggi, è proprio l'illimitatezza neocapitalistica.
    La svolta si avrà soltanto in situazioni drammatiche, con il sangue e le armi.
    Avrò ragione?
    Io credo di sì, e finora l'ho avuta.
    Eugenio Orso

  2. Luciano ha detto:

    Uscire dall'Unione europea si può, se lo vuole un intero popolo. Recedere dai trattati si può se a deciderlo è un ceto dirigente che abbia l'appoggio e il consenso della maggioranza del popolo italiano. Credo che , in tal caso, nulla potrebbero truppe armate straniere, non credo che le invierebbero nel caso dell'Italia, non ne avrebbero bisogno; l'Italia è gia occupata; hanno già le loro basi; è più credibile una nuova strategia della tensione. Per rimettere i paletti e segnare i confini occorre che il popolo sia cosciente della drammatica importanza di queste "misure"; il popolo non è idiotizzato o bestializzato, ma semplicemente disinformato e ingannato da un sistema massmediatico bugiardo. Quanti sono gli Italiani che hanno occasione di sentire o leggere idee sovraniste?  Certe "rivoluzioni" si fanno soltanto se esiste la coscienza di essere popolo; se esiste un popolo, non ci sono mercenari o truppe Nato che tengano. Per venire a "disgustose" quisquilie (così tanto per baloccarci), prevedo Monti a Presidente della Repubblica e la Bonino a presidente del consiglio, o viceversa: per gli anglo-americani è indifferente. Al governo sicuramente Bersani, Letta, la Gruber e Amato, a meno che quest'ultimo non sia dirottato al Quirinale al posto di Monti, che resterebbe al Chigi. Ovviamente mi auguro che, da ora a quell'ora, il sovranismo diventi patrimonio ideale del popolo in misura tale da riuscire a scompigliare le carte.

  3. Eugenio Orso ha detto:

    La cosa più drammatica, in questa situazione, non è tanto l'idiotizzazione/ bestializzazione delle masse-pauper, operazione già in riuscita di pari passo con l'impoverimento generale, ma l'assenza (solo apparente o effettiva?) di élite rivoluzionarie in grado di sviluppare la lotta antisistemica.
    Masse e Rivoluzionari sono due cose ben distinte, perchè ciò che conta, per il cambiamento, sono proprio le élite antagoniste (le masse sono, appunto, massa-di-manovra).
    Eugenio Orso

  4. Eugenio Orso ha detto:

    Ultima precisazione: il sovranismo, pur essendo di grande importanza, da solo non basta, come ragione di lotta contro l'euromostro, la globalizzazione neoliberista e le Aristocrazie globali.
    La riacquisizione della sovranità assoluta (non solo monetaria) deve accompagnarsi all'affermazione della giustizia sociale e a significative redistribuzioni dei redditi, togliendo al capitale (che da oltre vent'anni spadroneggia a scapito dei lavoratori) e dando non solo al lavoro, ma a tutti, per il semplice fatto di essere cittadini.
    La sovranità  è comunque la precondizione per una "rivoluzione sociale" che potrà mettere sotto il capitale, ridimensionare (spero fino ai minimi termini) il mercato e colpire quei gruppi sociali rei di aver appoggiato, per molti anni, il sistema (anche se oggi alcuni di loro "piangono il morto" a causa della crisi).
    Saluto e tolgo il disurbo
    Eugenio Orso
     
    P.S.: Non siate troppo certi che in Italia non ci potrà mai essere un intervento armato esterno, della Nato manovrata dalle Aristocrazie globali neoliberiste. Probabilmente non ci sarà perchè tutte le sedicenti forze politiche sono interne al sistema, e nessuna fra queste oserà anche soltanto pensare alla via sovranista per il riscatto …

  5. Fabio ha detto:

    @Luciano vorrei capire cosa intendi per "coscienza di essere popolo" . Mi piacerebbe avere una definizione di "popolo" : Il dentista , il notaio , il farmacista , il calciatore , il funzionario di banca , Tronchetti Provera , Zamparini , Della Valle , Caltagirone , un generale , un armatore , un professore della sanità che ti spilla 150 € per mezz'ora di colloquio ecc. appartengono allo stesso "popolo" di Mohamed o di Mario che fanno i lavori più usuranti a 900 € al mese ? 

  6. Tonguessy ha detto:

    Secondo Max Weber il credente della Riforma trova un segno della grazia divina nel successo economico. Il perseguimento del profitto poi abbandona la motivazione teologica ed assurge a scopo fine a sè stesso. Dire quindi che siamo tutti protestanti, anche se di diversa (o nessuna) fede corrisponde ad una verità.

    Secondo Spengler poi le civiltà nascono, crescono, decadono e infine muoiono. L'Occidente ha ormai perso la spinta propulsiva e creativa (quantunque discutibile) dei secoli passati (Baudrillard ha teorizzato la postmodernità) e mostra la crisi di valori che fino a ieri ne sostenevano il cammino.

    Al posto delle città ci sono le metropoli, dove si concentrano masse improduttive, e il cesarismo prende posto della democrazia: la politica perde il suo primato e la sua funzione, sostituita dall'omnipervasività dell'economia. 

    Tale cultura (?!) economica determina gli orizzonti all'interno dei quali gli individui possono muoversi. I simboli usati per decifrare il reale sono ormai quelli economici e non è concesso muoversi all'esterno di tali (dis)valori. Al massimo, conclude Spengler, ci si può fare "condurre" invece di "trascinare".

    Secondo Nietzsche poi "il fenomeno della decadenza è altrettanto necessario quanto qualsiasi sorgere e progredire della vita: non è in nostro potere eliminarlo".

    Inoltre sempre secondo Nietzsche l'umanità (il popolo?) non esiste, ma esistono i singoli individui – militari, banchieri, schiavi, operai- ognuno con i suoi bisogni e serie di valori.

  7. Emilio ha detto:

    @ Fabio
    circa la tua richiesta di definizione di Popolo, mi permetto di segnalarti l'opinione di de Benoist http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=42597 di cui ti anticipo un brano che già potrebbe rispondere alle tue legittime perplessità :
    "Un popolo può anche essere considerato composto da una moltitudine di singolarità, ma ciò non gli impedisce di formare un tutto, e quel tutto ha qualità specifiche indipendenti da quelle che ritroviamo negli individui che lo compongono. E perché il popolo forma un tutto che il bene comune non si identifica con un "interesse generale" che non sia nient'altro che la somma di interessi individuali. Il bene comune è irriducibile a qualunque sorta di suddivisione. Non richiede una definizione morale, ma una definizione politica."
    Saluti, Emilio

  8. stefano.dandrea ha detto:

    @Fabio, attendevo che rispondesse Luciano ma mi cimento anche io, seguendo le orme di Emilio. Tu hai chiesto: "Luciano vorrei capire cosa intendi per "coscienza di essere popolo" . Mi piacerebbe avere una definizione di "popolo" : Il dentista , il notaio , il farmacista , il calciatore , il funzionario di banca , Tronchetti Provera , Zamparini , Della Valle , Caltagirone , un generale , un armatore , un professore della sanità che ti spilla 150 € per mezz'ora di colloquio ecc. appartengono allo stesso "popolo" di Mohamed o di Mario che fanno i lavori più usuranti a 900 € al mese ?"

    Intanto, il 95% dei cittadini, pur trovandosi in condizioni economiche molto diverse, non appartiene alle categorie che indichi. Tra l'altro hai inserito anche il funzionario di banca, che non prende un grande stipendio e che oggi corre un pericolo non piccolissimo di perdere il lavoro (a parte che tutti i giovani laureati assunti ultimamente in banca sono a tempo determinato, inquadrati nelle diverse squallide tipologie contrattuali).

    Inoltre, una parte rilevante di quei ruoli ai quali accenni (professore della sanità, notaio, dentista, generale), tra gli anni sessanta e gli anni novanta è stata conquistata da figli di nessuno. Io conosco molti notai figli di nessuno. Direttori di banca figli di nessuno. Colonnelli figli di nessuno. Calciatori figli di nessuno; e persino dentisti figli di nessuno (farmacisti no. In questo settore ci sono i noti problemi e barriere rigidissime in termini di capitale necessario per divenire farmacisti). Quindi, è interesse del popolo, soprattutto dei ceti bassi e medio bassi, che la scuola e l'università pubbliche funzionino. Che diano opportunità di crescere; che aspirino a formare uomini e capacità astratte e non ad informare futuri lavoratori e a fornire abilità concrete.

    Va detto, anzi, che fino a poco tempo fa, tutti i figli di grandi professionisti o politici o imprenditori frequentavano l'università pubblica (solo dopo che è stata sfasciata dallo sfascista Luigi Berlinguer, si sono diretti verso l'università privata). L'unico vero luogo dove, astrattamente – se ben disciplinata e sufficientemente severa –  può crescere in generale (salvo geni autodidatti, che non fanno la regola) una generazione di cittadini pensanti e capace di dirigere un paese di sessanta milioni di persone è l'università pubblica che avevamo un tempo. Dunque esiste un interesse generale, anche delle classi agiate, all'esistenza di un sistema universitario serio, severo e potente. Personalmente ho frequentato l'università con figli di giudici costituzionali, di importanti docenti universitari e di importanti giudici di cassazione. Salvo pochi lavativi, tutti si impegnavano e si sono impegnati dopo l'università e avrebbero avuto e avrebbero, non soltanto sotto il profilo economico, maggiori benefici se l'università fosse stata migliore di comeè diventata.

    Inoltre, è interesse di tutti che l'ordinamento giuridico-economico abbia una certa funzionalità. Se gli imprenditori hanno interesse a non raggiungere la piena occupazione, per pagare meno i dipendenti, nessun cittadino italiano (nemmeno un imprenditore) ha interesse a raggiungere il 15% o il 20% di disoccupazione ufficiale. L'aumento della violenza (rapine, furti, aggressioni) e della insicurezza sarebbe (purtroppo sarà, perché tra due o tre anni raggiungeremo il 15%) enorme (a parte i danni economici che gli stessi imprenditori subiscono a causa di povertà diffusa). E tutti, forse i più ricchi in misura maggiore, ne subiranno le conseguenze in termini di aumento della violenza e della insicurezza.

    Ma le materie di interesse comune, che prescindono dal problema economico, sono moltissime: la bellezza, l'ordine, la cultura, la vivibilità delle città non hanno alcun rapporto con il reddito. L'esistenza di una televisione commerciale nazionale che ha stupidito il popolo italiano è un problema per chiunque la rifiuti. Io sarei favorevole a tornare alla tv nazionale solo pubblica che in italia abbiamo avuto fino alla prima metà degli anni ottanta. Una tv che non pruduce il consumatore, desideroso di acquistare beni di consumo, indebitato cronico, attento alle mode, alle marche ecc (la nostra tv negli anni settanta era più simile a quella sovietica che a quella statunitense). Questo interesse appartiene a chiunque avverta il problema e non è detto che un farmacista sia per principio contrario e un operaio per principio favorevole. E potrei continuare all'infinito.

    Dunque, esistono una disciplina che si impone a tutti i cittadini, la quale incide sulla loro vita (e non su quella di cittadini di altri popoli), istituzioni e prassi nelle quali viviamo e vivranno i nostri figli (noi italiani, non gli stranieri che ne vivono e vivranno altre), esperienze passate dalle quali possiamo imparare (magari che siamo stati molto bravi o più bravi di altri), una organizzazione politica dello stato che può essere patrimonio di tutti o ragione della rovina di tutti. L'esistenza di un conflitto di classe (che non è quello semplificato lavoratori subordinati-padroni) e una netta presa di posizione socialistica con riguardo a questo conflitto, non può far dimenticare che viviamo immersi in un  tutto collettivo e che siamo parte di un popolo e di uno stato che c'erano quando non c'eravamo e che ci saranno quando noi non ci saremo, ma ci saranno probabilmente i nostri figli.

  9. Fabio ha detto:

    @Emilio la definizione di Benoist è ovviamente interessante ma rimane un po’ in sospeso : anche se mi fa piacere che metta al centro l’idea di “bene comune” , lui stesso sostiene che l’idea di “bene comune” richiede una definizione politica . E se questa definizione alla fine me la fornisce un Carl Schmitt non può certo farmi piacere ; se me la fornisce un marxista sono più contento .
     
    @Stefano direi di essere sostanzialmente d’accordo su molte cose , ti chiedo quindi solo gli aspetti che non mi sono chiari . Non mi è chiaro se sei per un socialismo partecipativo con qualche concessione alla (piccola) iniziativa privata ; o se credi che uno Stato possa dirigere il capitale ( e non farsi dirigere ) evitando rapporti di forza con altri Stati ; oppure non ci sono andato nemmeno vicino e non sono nessuna delle due .

  10. stefano.dandrea ha detto:

    E' importante la forma che hai adottato per sollevare la domanda: se sono per un socialismo parrtecipativo" o se penso che lo Stato possa dirigere il capitale.

    Ovvio che chi non pensa che lo stato possa dirigere il capitale, se è anticapitalista, deve coerentemente essere a favore di un socialismo partecipativo che lasci qualche concessione alla (piccola iniziativa privata.

    La nozione sulla quale bisogna intendersi è "direzione del capitale". Che significa? Può significare che si prende atto che esiste un capitale finanziario, risparmiato da cittadini; che si fa in modo che il tasso d'interesse reale, depurato dall'inflazione, sia negativo (tassi all'11% con inflazione al 12 sono più socialistici di tassi al 5% con inflazione al 2%) – ma la costituzione non è così radicale e ci impone di tutelare il risparmio (che non significa che debba facilmente produrre denaro senza passare per beni e servizi); che si decide che quel capitale deve rischiare in Italia: deve valorizzarsi con investimenti in italia, anche se all'estero mediamente l'investimento può rendere di più o il rischio è inferiore; che si promuove nei settori strategici lo stato imprenditore: si fonda e costruisce l'eni, nella quale lavorano i migliori operai, tecnici, diplomatici, ingegneri italiani e dopo averla attentamente protetta la si lancia anche nel "mercato mondfiale", che è un mercato fatto di grandi imprese e di stati (e ora di patrimoni); che vieta ai risparmiatori di investire nei fondi (pensione, chiusi, aperti, ecc.); che promuove la piena occupazione, intanto nel settore primario, proteggendo l'agricoltura fino al punto da garantire una vita dignitosa a un bracciante; ecc. ecc.

    A livello di pensiero è evidente che si può dirigere. La storia dimostra che i rapporti tra il potere politico e il capitale trovano vari equilibri (in molti stati capitalistici abbiamo avuto anche imposte sui più alti redditi che superavano il 70%); che per lunghi poeriodi le banche sono state pubbliche; che in molti paesi oggi vincenti che adottano forme di capitalismo di stato e non di mercato sono ancora oggi pubbliche; che il medesimo discorso vale per le compagbie petrolifere , oggi in gran nparte pubbliche. I salari dei dirigenti potrebbero essere disciplinati e limitati nel rapporto con quello degli operai; la renddita immobiliare potrebbe essere limitata da equo canone, piano casa, edilizia cooperativa e popolare. Tutte cose che sono state reali; che sono accadute; non sono state soltanto pensate.

    Se noi riusciamo a guardare un po' dietro e se guardiamo ai paesi emergenti, che spesso imitano come eravamo, è possibile segnalare approdi socialistici. Poi, se mai un giorno la rotta fosse invertita, sarebbero i singoli popoli a decidere, eventualmente, di percorrerla ancora e magari fino in fondo.

    Tra l'attuale capitalismo globalista concorrenziale, consumatore e antistatalista da un lato, e il socialismo partecipativo dall'altro, ci sono decine di principi socialistici, che limitano la valorizzazione del capitale o la sottopongono a direzione pubblica, i quali possono efficacemente e persuasivamente essere proposti al popolo. Non abbiamo tanto bisogno della parola socialismo; abbiamo bisogno di riscoprire e difendere svariati principi socialistici, che un tempo sono stati vigenti.

  11. Luciano Del Vecchio ha detto:

    Essere popolo o sentirsi popolo presuppone che si sappia cosa sia un popolo. Ora, del termine si possono dare parecchie definizioni a seconda delle disciplina da cui si analizza il soggetto. Ovviamente non possiamo accontentarci di quella giuridica: il popolo è l’insieme dei cittadini che godono della cittadinanza di uno Stato. E forse neanche di quella sociologica: la comunità di persone che hanno in comune storia, tradizione, cultura , lingua costumi, e che condividono credenze e valori, e coltivano comuni radici, appartenenza e identità di gruppo. Potremmo accettare la definizione che ne dà la la Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli (CONSEU – Barcellona, 27 maggio 1990), che afferma: "Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato (…) costituisce un popolo. Ogni popolo ha il diritto di identificarsi in quanto tale. Ogni popolo ha il diritto ad affermarsi come nazione."  Per popolo si possono intendere tutte queste cose (cultura, storia, territorio), di cui, per sviluppare coscienza di popolo, non possiamo fare a meno. Ma in questi anni si è creato un po’ di confusione perché il termine popolo, a mio avviso, è stato usato impropriamente, per definire gruppi e fenomeni sociali, quanto mai effimeri e transeunti, come per esempio il popolo viola o il popolo vacanziero. Si usa la parola per indicare genericamenti aggregati temporanei di gente che si riconoscono soltanto in comportamenti e convinzioni durevoli qualche stagione se non addirittura qualche settimana. Per cui per definire cosa è un popolo forse occorre disincrostare il termine di tutte le accezioni che in questi anni gli sono state arbitrariamente affibiate.  
    Ma la confusione concettuale più grande è nata da quando si è usato il termine popolo al posto di “classe sociale”. Ora la classe sociale è un  raggruppamento caratterizzato e reso omegeneo dal livello  di reddito e dal mestiere o professione, o,  secondo Marx, anche dal suo rapporto con i mezzi di produzione; dunque sono soltanto fattori economici o professionali a definire una classe o un ceto.  Un popolo comprende al suo interno diverse classi sociali. Perciò di un popolo fa parte sia l’operaio sia l’artigiano sia il dentista. E ogni singolo individuo di ogni singolo ceto  condivide con gli individui appartenenti alle altre classi sociali la storia, la cultura e il territorio (per sintetizzare) che concorrono a formare un popolo.
    Specialmente a sinistra si è abusato del termine “popolo” per intendere ceto operaio o classe proletaria, salvo poi a coniare il termine spregiativo “populismo” quando altri hanno inteso il popolo in un significato e in una estensione sociale e civile più vasta. E nell’ambito della classe sociale la stessa sorte è toccata al termine “operaismo”. Certo è più facile e immediato avere coscienza di classe e non coscienza di popolo. Su questo fronte in Italia siamo un po’ debolucci e questo può spiegare, oltre alla sistematica disinformazione e manipolazione delle menti,  la mancata reazione alle misure del governo Monti. A cosa è dovuto una debole coscienza di popolo? Suppongo alla secolare mancanza di socialità, a un certo cinismo storicamente diffuso e intriso del proprio”particulare” guicciardiniano, su cui si è sovrapposto l’odierno individualismo consumista. Quando la società si disintegra, tutti quei fattori che fanno parte dell’essenza di popolo, storia, costumi, tradizione, lingua , cultura, valori passano in secondo piano, e si rimane soli a consumare merci, senza valori che ci trascendano. O al massimo confinati nella propria classe sociale, che diventa una gabbia da cui non si esce, perché la classe sociale viene definita soltanto dalla misura del censo, anche se oggi i redditi dei diversi ceti cominciano a livellarsi o addirittura a divaricarsi a favore di categorie di lavoratori, specie autonomi, considerati una volta meno abbienti rispetto ai ceti professionali.   
    Oggi dubito che esista, non che coscienza di popolo, ma coscienza di classe, dacché il ceto operaio si è ridotto statisticamente e sociologicamente e i ceti medi forse non l’hanno mai avuta. Ora esiste un indistinta massa di ossessionati consumatori che accedono tutti, lavoratori del braccio o della mente, ai medesimi consumi. E comunque per “fare la rivoluzione” occorre che una classe sociale si proponga come popolo, come rappresentante degli interessi di tutto un popolo. È una finzione ideologica a cui bisogna stare attenti. Nel 1917 in Russia gli operai dell’industria si proposero e si identificarono con l’intero popolo e fecero la rivoluzione, ma poi nei decenni successivi furono sterminati i contadini. Se non si ha coscienza di popolo non si fonda o si rifonda uno Stato. Se un popolo non si dà uno Stato e istituzioni forti e autorevoli (senatus populusque), attraverso cui esercitare la sovranità, alla lunga si estingue come popolo. Se non esiste il popolo non esistono neanche le classi sociali.    

  12. Lorenzo ha detto:

     
    Mi permetto di intervenire, interessato più ad analizzare il problema che a coniare definizioni operative.
     
    Il popolo, al pari di qualsiasi categoria collettiva (famiglia, stato, nazione, razza, classe, umanità…), semplicemente non esiste; è una lasca generalizzazione che serve a raggruppare – in maniera del tutto generica ed approssimativa – una pluralità di individui che presentano alcune caratteristiche comuni.
     
    Poiché tuttavia gli esseri umani enormemente più che a fare chiarezza sono proiettati a vivere, e a vivere socialmente, i nomina hanno sempre esercitato un proprio fascino evocatorio, nel senso che se da una parte si raggruppa in unità semantica l’insieme di individui che concretamente formano un gruppo sociale, dall’altra l’introiezione del morfema così creato rafforza la coesione dell’insieme di partenza. Tale coesione rende a sua volta più credibile il morfema e per questa via le generalizzazioni linguistiche finiscono per acquistare una realtà quasi materiale agli occhi di coloro che se ne fanno abbracciare. Questo circolo spurio soggiace a qualsiasi forma di umana aggregazione: la lingua ha un suo proprio fiat, e saperlo manipolare pertiene ai fondamenti di qualsiasi attività pratica (politica, etica, giuridica).
     
    Come osservava il sopracitato Spengler “un popolo è sempre l’unità di un’idea […] e la forza di un popolo dipende dalla forza di quest’idea”. Nozione che, in una prospettiva scettica e criticista, può formularsi come segue: “la durata e la consistenza d’una collettività coincidono colla durata e la consistenza dei suoi pregiudizi” (Cioran). Parlare di popolo o di stato ha lo stesso significato che parlare di Giove Pluvio o Gesù Cristo: ecco perché "tutti i concetti più pregnanti del diritto pubblico moderno sono concetti teologici secolarizzati" (C. Schmitt)
     
    La vostra discussione sul ‘reale’ (!) significato di ‘popolo’ è, permettetemelo, un carnevale delle maschere (e non dimentichiamo che persona in latino significava maschera…) o meglio una commedia di fantasmi, in cui ciascuno seleziona tra innumerevoli categorie aggregative quelle a cui si sente legato o che gli appaiono più utili a realizzare certe finalità di ordine pratico.
     
    Con ciò smetto di annoiarvi… considerate questo breve intervento una postilla buona a scoraggiare certezze definitorie :o)

  13. altrecorrispondenze ha detto:

    non sono più così sicuro che il dominio della finanza globalizzata faccia a meno degli stati nazionali, sia pur concepiti come “torchio” per spremere risorse a favore dei detentori dei titoli di debito sovrano

    Quello che accade in Europa mi suggerisce che è meglio non abbandonare la leniniana teoria dell’imperialismo, seppur rivista e corretta alla luce della adesione capillare al capitalismo degli individui e delle comunità

    allora diventa improbabile un percorso “socialistico” in un singolo stato

    questo non vuole essere un incoraggiamento all’afasia ma uno sprone a non darsi risposte troppo affrettate

    non sono certo estraneo alla sofferenza dettata dall’agenda politica, ma mettere un freno, in senso filosofico, al cattivo infinito capitalista non mi pare ci debba far presumere come adeguata un azione politica che favorisca il limes del capitale nazionale

    dobbiamo assolutamente non dimenticare che il welfare è l’altra faccia dell’accumulazione capitalistica, la attuale non-reazione collettiva ha a che fare con la concezione di uno stato redistributivo passata nei “gloriosi trenta”, mentre lo stato capitalistico non ha mai smesso di essere il Leviatano messo a guardia dello status quo

    saluti

  14. Luciano Del Vecchio ha detto:

    Mi sembra che Lorenzo sollevi con grande acutezza un problema filosofico e scientifico, in particolare di semantica,  ma non storico-politico o sociologico.
    Le parole definiscono davvero le cose, gli oggetti, gli aggregati, gli eventi, i processi? No. Secondo i principi fondamentali della fisica quantistica le parole non possono definire le cose poiché le cose e gli aggregati non esistono. La materia esiste soltanto quando l’osserviano, altrimenti è soltanto onde inderminate di possibilità. L’indeterminazione non ci consente neanche di misurare simultaneamnete le altre grandezze come l’energia e il tempo. L’indeterminazione è dunque una caratteristica di ciò che definiamo “materia”, termine non meno convenzionale di “popolo”. Cosa definiscono dunque i nomi se l’intera realtà non è altro che onda indeterminata di possibilità?
    Ma anche senza scomodare la quantistica e accontentandosi della biologia, si deve concludere che non solo non esiste il “popolo” o la “classe”, ma neanche l’individuo. Infatti, l’individuo non è altro che un aggregato di cellule, le quali cambiano, secondo gli scienziati, ogni circa 7 o 8 mesi; e tutta questo aggregato-processo definiamo convenzionalmente “individuo”. Non solo sul piano materiale(?), ma anche su quello spirituale(?) non esisterebbe l’individuo, non esisterebbe l’anima, non esisterebbe l’ego, perché è arduo dare consistenza e durata a pensieri, emozioni, percezioni, destinate tutte a svanire in un indistinto movimento verso l’estinzione.
    Molti secoli prima della nascita della fisica quantistica, erano giunti sorprendentemente alle sue stesse conclusioni anche le filosofie orientali, in particolare il taoismo prima, e il buddismo dopo. Entrambi le religioni sostenevano che la lingua è inadeguata ad esprimere la realtà poiché la realtà non è fatta di cose, di oggetti o di aggregati. Per contrastare queste conclusioni Confucio si spinse a elaborare la teoria della “rettificazione dei nomi”, che altro non era che l’esigenza di chiamare correttamente ogni cosa con il suo nome. Ma la cosa non esiste e la fisica quantistica sembra dare ragione al taoismo.
    Quindi anche i termini che designano categorie sociali sono tutti inadeguati perché tutti designano qualcosa di provvisorio, che cambia e si trasforma incessantemente. Popolo, società, classe, ceto designerebbero aggregati convenzionali di individui, a loro volta aggregati convenzionali di cellule. Popolo, classe, famiglia non sarebbero dunque più reali dei meridiani e paralleli che formano il reticolato convenzionale da noi disegnato sul mappamondo; non più reali del minuto e dell’ora con cui convezionalmente misuriamo e ci illudiamo di dominare il tempo; non più reali del centimetro e del metro con cui convezionalmente misuriamo e ci illudiamo di dominare o spazio.
    E tuttavia un nome ai nostri concetti e alle nostre generalizzazioni dobbiamo pur darlo; dobbiamo pur  raggruppare “in unità semantica l’insieme di individui che concretamente formano un gruppo sociale”; dobbiamo pur “selezionare le categorie aggregative che ci i appaiono più utili a realizzare certe finalità di ordine pratico” . Ed è ovvio che popolo e classe, sono genralizzazioni sociologiche e politiche, ma che ci servono per orientarci, per misurare e interpretare, non la realtà del laboratorio scientifico, ma l’arena storica e politica. Come è ovvio che ogni singolo popolo dura quell’arco di tempo in cui perdurano i fattori che lo determinano come gruppo. Oggi non esistono più i sumeri e gli ittiti, ma questo non ci impedisce di definire, convenzionalmente,  sumero quel gruppo umano che è vissuto in quel tempo, su quel territorio, con quella lingua, con quella storia, con quelle leggi  e con quegli  usi e costumi. ed è altrettanto ovvio che, cosi definendolo, lasciamo la filosofia e ci caliamo nella storia, nella politica, nella sociologia. 
     “La durata e la consistenza d’una collettività coincidono colla durata e la consistenza dei suoi pregiudizi (Cioran)”  Ben detto. Ogni popolo dura quanto durano i suoi pregiudizi? Sicuro. E da dove nascono i pre-giudizi? Da pre-condizioni, da pre-messe, da pre-supposti, da pre-visioni della vita, da pre-concezioni della realtà. E cioe? Dal  territorio, dalla storia, dalla cultura in senso lato, dalla lingua: ecco da dove nasce la convenzione “popolo”.  Tutti i popoli del pianeta sono dunque convenzioni; una conclusione che dovrebbe piacere molto al capitalismo globale, perché  definirebbe esattamente il suo obiettivo: estinguere tutte le nostalgiche “convenzioni” di popoli e nazioni. Alla luce della principi della fisica quantistica, della semantica, del taoismo , del buddismo, il termine “popolo” non è più convenzionale e più significante del termine “bocciofila” o di qualsiasi altro termine di qualsiasi altra lingua parlata al mondo, tutte quante codici comunicativi convenzionali. Ma poi, in fondo, a fini comunicativi, ti tocca pur definire l’associazione delle persone (maschere?) che coltivano e promuovono il gioco delle bocce.

  15. stefano.dandrea ha detto:

    Grazie Luciano

  16. Tonguessy ha detto:

    Luciano,

    stai usando una particolare e moderna  reductio ad absurdum che si chiama destrutturazione. Derrida ne è il massimo esponente, e dice che si può smontare e riassemblare ogni costrutto sintattico in funzione del logos che si intende perseguire. Derrida si avventura nel labirinto del relativismo semantico totale, e ne resta intrappolato.

    Ovviamente sono in totale disaccordo su quanto scrivi. Intanto stai mettendo l'universo delle particelle subatomiche allo stesso livello (di funzionamento) degli esseri viventi, e questa è una palese violazione di sistema. Giusto per ricordare R. Feynmann: "posso affermare che nessuno capisce la meccanica quantistica".

    Il che è abbastanza lontano da affermare "io mi conosco abbastanza bene", pur essendo io un "aggregato di particelle subatomiche".

    E qui avviene una seconda violazione. Non è necessario possedere e diffondere la visione "scientifica" di ciò che ci sta attorno. Io, ad esempio, mi incazzo solennemente se qualcuno afferma che sono un ammasso di atomi. Io sono la mia storia, le me esperienze, i miei sogni, i miei valori, ciò che mangio e bevo e così via. Ho una visione animistica delle cose, e l'anima, per così dire, è indivisibile. Non esiste alcuna particella fondamentale nell'animismo. Viceversa ogni cosa (vivente o meno) fa parte di una rete di relazioni che qualificano la sua esistenza.

    Quando entro in contatto con qualcosa (vivente o meno) sto tessendo quella rete relazionale. E non ci sono particelle subatomiche in giro. Non esistono quark relazionali, mattoncini o atomi che siano. Esiste il Tao, ciò che è. 

    In base alla mia rete relazionale trovo di poca utilità l'idea di popolo composto (come correttamente annotava Fabio) da  Trochetti Provera e Dalla Valle cui rivolgere un appello. Piuttosto trovo utile rivolgersi a quelle persone che subiscono i diktat, e che, guarda caso, sono una classe. Pauperclass direbbe Eugenio.

    Ho assegnato un valore alla classe, che rappresenta delle identità con parecchi tratti in comune. Ora si può obbiettare che la bocciofila è sullo stesso piano semantico. Il fatto è che così, sminuzzando e spezzettando i termini della comunicazione, ci si ritrova nell'inferno relativista di Derrida. E non se ne esce vivi.

    La comunicazione deve ( a mio modesto avviso) essere funzione degli scopi. Il logos deve seguire il nomos che si intende perseguire, non viceversa. Pena un totale rovesciamento delle parti. Si giunge così ad allontanarsi dalle ideologie (non esiste più destra e sinistra) per rilanciare l'ideologia neoliberale. Il che è esattamente ciò che sta succedendo.

    Preferisco rilanciare le ideologie tradizionali, a questo punto. Abolire il totale relativismo e mettere dei punti fermi. Relegare i sistemi partcellari all'interno dell'universo che compete loro, lasciando noi uomini liberi di decidere, in base alle nostre preferenze politiche, quali siano i paletti da mettere e quando metterli.

    Uscire dall'euro non gode dello straordinario dualismo onda/particella. E' un atto puramente politico. A senso unico, senza dualismi di sorta.

  17. stefano.dandrea ha detto:

    Tonguessy, forse non avevo ben compreso il commento di Luciano. Ma da come l'ho inteso, le vostre posizioni non sono così distanti, salvo magari l'esistenza di due anime che hanno un rapporto un po' diverso con il termine popolo. Luciano, infatti, aveva premesso: "Mi sembra che Lorenzo sollevi con grande acutezza un problema filosofico e scientifico, in particolare di semantica,  ma non storico-politico o sociologico".

    Se pensiamo a singole persone (Tronchetti Proveira, Della Valle ecc.) nemmeno io riesco ad essere contento di appartenere alla medesima entità collettiva alla quale esse appartengono. Però credo che nemmeno si possa essere contenti di appartenere alla medesima entità collettiva, questa volta denominata classe e non popolo, alla quale appartengono taluni servi o schiavi o consumatori compulsivi deficienti che magari per sventura conosci personalmente.

    Insomma, i concetti che designano collettività di persone identificate per uno o più elementi oggettivi (lingua, storia, leggi, istituzioni, influenza della religione storicamente prevalente, per il popolo; somma del reddito e delle rendite per la classe; combinazione del reddito, della professione lavorativa e del livello di scolarizzazione per il ceto), per forza di cose ci aggregano a persone che non ci piacciono. Non siamo noi a scegliere le persone. Noi al più scegliamo, nella misura in cui la semantica lo consente, gli elementi che identificano i concetti collettivi. Alla tua classe appartengono anche stupratori incalliti, razzisti squallidi e fan della De Filippi. Insomma persone che magari disistimi come Tronchetti Proveira.

    Non credo che la presenza di stupratori incalliti, consumatori deficienti servili e compulsivi siano sufficiente a non farci sentire membri di una classe o di un ceto. Allo stesso modo. Tronchetti Proveira,Berlusconi, D'Alema, Bersani e mille altri non bastano a farci escludere che siamo parte di un popolo.

    Piuttosto, l'autoesclusione da un'entità collettiva è possibile quando ci troviamo a disprezzare la (o comunque non ci riconosciamo minimamente nella) larga maggioranza degli appartenenti all'entità. Ciò può avvenire per il ceto, la classe e il popolo. Con una differenza, però. Che entra in gioco l'elemento giuridico. I concetti di classe e di ceto sono sociologici, economici e (in certo senso) politici. Il concetto di popolo è anche giuridico. Tu appartieni al popolo (anche) contro la tua volontà e per volontà della legge. Giusto o sbagliato che sia, sei assoggettato ad obblighi che hanno come destinatari tutti i cittadini (di vaccino; di leva; di partecipazione alla vita economica collettiva e alla vita politica collettiva; di imposizione; di residenza; di rispetto delle particolari leggi che si riferiscono a tutti i cittadini; di far frequentare ai tuoi figli la scuola dell'obbligo, ecc.). Puoi soltanto fuggire in altro paese (ma sappi che per lo stato, almeno fino a quando si verificano certi presupposti sei pur sempre un cittadino italiano). Ma se poi vuoi la nuova cittadinanza, come mostri di volerla riconoscere agli stranieri in talia, allora diverrai parte di un altro popolo. Oppure potrai vivere da straniero all'estero. E' un modo per non sentirsi parte di alcun popolo. Una scelta rara e la rarità testimonia storicamente il bisogno di appartenenza ad un popolo.

  18. Tonguessy ha detto:

    Caro Stefano,

    premetto che queste discussioni mi interessano molto, specialmente se ben argomentate com'è stato finora.

    Il punto che sollevi è corretto: tanto io che Marchionne abbiamo passaporto italiano. Apparteniamo quindi, per estensione, al popolo italiano che ha confini, usanze e leggi. Che purtroppo non sono uguali per tutti. Lo sbilanciamento che il neoliberalismo ha causato è fin troppo evidente: noi non possiamo permetterci di ignorare equitalia (emanazione dello Stato), ma lo Stato si può permettere di ignorare noi, la nostra salute, il nostro lavoro, la nostra educazione e così via.

    A questo punto occorre dire che lo Stato non è un ente metafisico, ma è la serie di riti (la metto sull'antropologico) che consolidano gli usi all'interno di specifici confini.

    Riti che sono osservati da persone. Magari non tutte. Il rito di esportare capitali all'estero, per esempio, non mi appartiene. Appartiene a Marchionne.

    Marchionne assieme a i suoi sodali ha manipolato la Costituzione, promulgando leggi che permettono ciò che la Costituzione sconsiglia (o vieta).

    E' qui che finisce il concetto di popolo e iniziano le classi.

    Tutti gli italiani hanno il passaporto italiano. Ma pochi esportano capitali. Moltissimi invece hanno difiicoltà ad arrivare a fine mese. Tra questi molti amano passare la domenica nei lager commerciali, succubi dei sistemi comunicativi dei vari Marchionne che fa credere loro che esportare capitali sia utile e saggio, e trascorrere le domeniche nei lager commerciali sia cool.

    Classi che concorrono con classi antagoniste alla propria sconfitta.

    Ma sempre di classi si tratta. Mentre non nutro alcun interesse a curarmi delle classi vincenti, ho interesse a curarmi della classi perdenti, disadattate, disinformate, turlupinate. Perchè abbiamo gli stessi interessi in comune

  19. stefano.dandrea ha detto:

    Tonguessy,

    se sotto il profilo economico, il popolo si lascia dividere in classi e ceti sociali, forse si lascia dividere anche sotto altri criteri. Quando aspiriamo a una certa disciplina dei rapporti di classe, lo facciamo all'interno di uno stato nazionale. la nostra azione è azione politica nazionale; essa mira ad un mutamento dell'ordinamento giuridico statale, in un preciso profilo economico. Quando passiamo a tutelare dignità, riservatezza e libertà varie del lavoratore subordinato, ancora procediamo a una disciplina dei rapporti di classe e sempre all'interno di uno stato nazionale; anche se abbiamo a cuore un profilo non economico del rapporto di lavoro.

    Quando però pensiamo alla disciplina della scuola pubblica o dei servizi pubblici locali (a chi conviene che il comune trascuri il teatro o la musica classica o la letteratura o lezioni di uomini di pensiero?) o della caccia o delle acque pubbliche, o alla legislazione urbanistica e a mille altri settori dell'ordinamento, che sono frutto di scelte politiche, talvolta la classe o il ceto vengono in considerazione, sia pure indirettamente; talvolta no. Vengono in considerazione ancora una volta conflitti tra cittadini che hanno vedute diverse; e in certa misura tra specie di capitalisti e gruppi di cittadini. Ma i valori che si contrappongono ai capitalisti sono valori, sovente costituzionali, non strettamente economici. Attengono alla bellezza della terra e delle città nelle quali viviamo; alla concezione della vita (che prevede momenti di otium da dedicare all'arte o al pensiero); alla volontà di indirizzare la vita e le istituzioni collettive nelle quali vivranno i nostri figli; ecc. ecc.

    Non vedo alcuna incompatibilità tra il sentimento dell'appartenenza di classe e la consapevolezza di essere parte di un popolo; di essere un cttadino italiano, residente in una precisa città, che riposa la mente adagiandosi su specifiche colline, i cui figli frequentano una scuola pubblica organizzata e disciplinata in un certo modo, servito da un servizio sanitario pure organizato in un modo (e che potrebbe essere organizato diversamente). Per recare un esempio. Il governo Monti ha deciso di cancellare il Tribunale di Avezzano, per risparmiare 280.000 euro (è assurdo ma è così; i cittadini marsicani subiranno danni economici e spese enormi – ma danni e spese sono dei privati; mentre formalmente Monti pensa soltanto a far risparmiare soldi pubblici) . Questa è una follia contro la quale dovrò combattere nei prossimi tre anni. Non soltanto perché mi tocca come avvocato, bensì perché mi colpisce come cittadino. I provvedimenti con i quali il ministro della giustizia vuole chiudere i tribunali italiani (io sono favorevole a reintrodurre le preture) sono atti criminali, che ci riguardano tutti, come cittadini italiani, a prescindere dall'appartenenza di classe.

  20. Tonguessy ha detto:

    Stefano,

    la verità è che ai capitalisti e relativi lacchè poco importa che chiudano quasi tutti i tribunali: i loro legali si spostano con tranquillità e hanno i giusti agganci con le procure. Diversamente un cittadino si chiederà se veramente conviene intraprendere una costosissima azione penale in un lontano foro. La Giustizia ha dei costi che non tutti si possono permettere (tralasciando le sentenze inique).

    Con gli ospedali non cambia nulla: le elites se ne vanno nelle cliniche private statunitensi. I poveracci muoiono mentre cercano di raggiungere un lontano ospedale, visto che quelli vicini sono stati chiusi.

    Con l'istruzione pensi vada meglio?

    Se consideri tutto questo vedi che c'è una differenza sostanziale tra popolo e classe. Lo spostamento di soldi dal basso verso l'alto comporta un atteggiamento sempre più arrogante ed elitista da parte dei vincitori ed un ritorno ad un doloroso passato senza diritti da parte dei perdenti. Ovvero delle classi meno abbienti.

    Non si tratta di incompatibilità (qualsiasi cosa questo voglia dire) ma di consapevolezza. Per questo auspico un ritorno alle ideologie. Perchè ogni ideologia richiama una serie di valori storici, sociali, politici e comunicativi.

    Nel nome dell'ideologia neoliberista siamo tutti chiamati a prender atto del fallimento delle precedenti ideologie. Beh, io non ci sto. Non mi va di fare del disvalore neoliberale una bandiera. Preferisco ritornare alle antiche certezze, agli antichi scontri. Non voglio andare a braccetto con il mio nemico politico come amano fare in Parlamento. Voglio combatterlo, il mio nemico politico. Voglio smascherarne scopi e falsità.

    Per fare questo servono le ideologie e servono le classi.

    In alternativa c'è l'ideologia neoliberale mentre le elites continuano a negare l'esistenza delle classi dall'alto del loro potere, mentre a noi tolgono diritti ogni giorno che passa, lasciandoci solo il dovere di non parlare più di classi nè di ideologie. 

  21. stefano.dandrea ha detto:

    Tonguessy, se consideri come classe avversaria una elite totalmente ristretta, ciò che dici non fa una piega. Quegli uomini te li ritrovi nel popolo al quale appartieni, come trovi spacciatori di eiroina, pedofili e truffatori nella classe alla quale appartieni.

    Però, l'esempio del Tribunale è significativo che c'è altro oltre la classe. Può non interessarti ma c'è ed è oggettivo. A parte che se fosse un fatto di classe bisognerebbe andare ad elogiare chi volle le preture (poi tolte) diffuse su tutto il territorio nazionale, anche in piccoli paesini. E ci dispiacerebbe scoprire chi volle un provvedimento "anticlassista", che in realtà testimonia semplicemente la presenza dello stato sul territorio e la vicinanza, anche finisca della giustizia ai cittadini.

    L'accorpamento del tribunale di Avezzano a L'Aquila comporterà svantaggi per gli avvocati avezzanesi e vantaggi per gli avvocati aquilani; svantaggi per commercianti avezanesi e vantaggi per quelli aquilani; costi per i marsicani che vorranno intentare cause o dovranno resistere a cause promosse nei loro confronti; svantaggi per tecnici marsicani che a vario titolo svolgevano perizie e vantaggio per i tecnici dell'aquilano; indebolimento delle casse comunali avezzanesi e miglioramento per quelle acquilane. Nessun mutamento sotto il profilo della funzione di giustizia. Tutto questo per risparmiare 390.000 euro (prima ho lievemente sbagliato nell'indicare la cifra) Al contrario, per quanto riguarda gli ospedali, gli accorpamenti comportano un miglioramento del servizio sanitario (maggiore esperienza dei medici e quindi miglioramento delle prestazioni medie, ecc.); sicché, salvo i presidi territoriali, probabilmente una eccessiva diffusione di piccoli ospedali sul territorio è nociva.

    Come vedi si tratta di materie tecniche, complesse, sulle quali si prende posizione dopo un'analisi che tenga conto di diversi profili. Francamente mi sembra che le due questioni, considerate in concreto – se l'ospedale x debba essere soppresso e accorpato all'ospedale y; se il Tribunale z debba essere soppresso e accorpato al Tribubale w – non si lascino ricondurre a un conflitto fra classi e nemmeno tra zone territoriali (non è stata l'Aquila e in genere i luoghi dove sono unicati i tribunali che resteranno e si ingrandiranno a volere la sopressione). Qui c'è l'ideologia che lo stato deve risparmiare. E c'è la pretesa esigenza di risparmiare perché si pagano alti interessi sul debito, che potremmo non pagare. Anche i ricchissimi di Avezzano ci rimetteranno (mattinate perse; maggiri costi; ore di lavoro perdute se i dipendenti devono recarsi a testimoniare; negozi e ristoranti  che lavorano meno). Quindi, salvo considerarli come appartenenti a una classe oppressa, non si tratta di questione di classe.

    Un conto è riscoprire la questione di classe. Un conto è negare che siamo un popolo; che abbiamo una organizzazione che si chiama stato apparato; che esistono profili oggettivi di funzionalità o disfunzionalità di questo apparato; che l'organizzazione e poi la vita del popolo è sancita in uno stato ordinamento, ossia in un complesso di norme, che è interesse di ognuno siano scritte bene, siano chiare, siano stabili, tutelino i paesi, le cittadine e le città di provincia che costituscono il 90% dell'Italia.

  22. Tonguessy ha detto:

    Stefano,

    ogni concentrazione (di capitali, procure, ospedali, sistemi energetici e così via) è sintomo di volontà di accentrare il potere per potere controllare meglio le dinamiche (sociali, politiche, energetiche, sanitarie etc..).

    Viceversa una capillare distribuzione di risorse nel territorio è sicuramente un passo positivo per la collettività. Pensa solo alle cure mediche: un barone che gestisce un megacentro oppure tanti piccoli centri ognuno con proprie specificità che possono andare incontro a esigenze diverse.Sono in totale disaccordo che tanti piccoli ospedali siano peggio di un enorme ospedale: per lo stesso motivo dovremmo favorire il diffondersi dei centri commerciali.  

     

    Oppure pensa alla megacentrale elettrica contro tante piccole centrali.

    O alla corte dittatoriale contro amministrazioni locali e così avanti.

     

    Quello che hai descritto nel trasferimento del tribunale all'Aquila è il solito fenomeno dell'inurbamento coatto. Alcuni avvocati troveranno utile spostarsi nel capoluogo per evitare troppe trasferte, trascinandosi dietro la solita scia di persone che si sposteranno dove il "commercio" (in senso lato) è più florido, lasciando quei posti (magari bellissimi) che le scelte politiche hanno messo in disparte, facendole precipitare in zone depresse (rispetto al passato).

    Si ritorna così sulla discussione sulle classi, chi le rappresenta e chi vince le battaglie.

    Mi sembra corretto annotare come le classi meno abbienti siano diventate ancora una volta merce. I loro diritti sono poca cosa rispetto ai diritti delle elites, che decidono di concentrare le risorse di cui ho accennato invece che distribuirle.

    Non mi sembra una gran novità, piuttosto il segno dei tempi che stiamo vivendo.  

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