Essere filo-italiani
di MARCO TROMBINO (RI Genova)
Il riflesso del conflitto russo-ucraino nell’opinione pubblica italiana difficilmente poteva risultare più deprimente. Una parte della cittadinanza (non è importante in questa sede stabilire in quale percentuale) che tifa per Putin, un’altra parte che tifa Ucraina, NATO e Occidente. Analizziamo lo squallore di entrambi i bacini di opinione, se così si possono chiamare.
A parte una minoranza di cittadini dotati di spirito analitico, alle volte chi “tifa Putin” lo fa nella speranza che l’attuale presidente della Federazione Russa liberi l’Europa e l’Italia da fardelli quali l’Unione Europea, il neoliberismo, lo strapotere delle multinazionali, la NATO, la presenza militare statunitense nel nostro paese, eccetera. Bisogna avvisare queste persone che la Federazione Russa non lo farà mai per ben due solide ragioni: prima di tutto perché essa stessa è un paese assolutamente capitalistico e con economia di mercato, che fino a poco tempo fa era perfettamente integrata nel sistema neoliberista internazionale, e poi perché la sua strategia geopolitica non si basa sul promuovere rivoluzioni in altri paesi come faceva l’Unione Sovietica del secolo scorso, ma sul semplice prendere accordi con governi venuti alla ribalta “in loco” in maniera autonoma; è il caso recente del Mali e della Repubblica Centrafricana, che a fronte di cambi di esecutivo interni si sono poi accordati volontariamente con la Russia stessa. L’idea che Putin venga a liberare l’Italia può venire in mente solo ad un ciarlatano o a una persona senza un minimo di conoscenza di geopolitica, o ad una combinazione dei due. Dev’essere chiaro che la Federazione Russa non può nemmeno essere presa a modello: il suo sistema economico è basato su un sistema di mercato che si tiene in piedi grazie all’estrazione di materie prime dal sottosuolo, specialmente di prodotti energetici, e l’Italia non può – anche volendo – prendere come esempio tale paradigma.
D’altra parte, anche questa ventata di tifo filo-occidentale, largamente promosso dai media, dalle asfissianti reti sociali, da tutte le forze politiche parlamentari dall’estrema destra all’estrema sinistra con tutto quello che ci sta in mezzo (se mai ci fosse stato bisogno della prova che sono tutti uguali, eccola servita), da larga parte di quelle associazioni di volontariato apparentemente apolitiche ma in realtà schierate, perfino da movimenti extraparlamentari, è altrettanto patetico. Innanzitutto è rivelatorio di una fetta di opinione pubblica che non sa giudicare eventi concreti senza tifare; ma, soprattutto, mostra che in Italia abbiamo il problema di molti cittadini convinti che i propri interessi risiedano negli interessi di uno schieramento globale o peggio della stessa Unione Europea che ci sottrae pezzi di reddito ogni decennio da trent’anni a questa parte. Peggio: una parte dei cittadini è convinta che sia giusto fare sacrifici – pagare bollette più alte, vivere problemi di approvvigionamento alimentare, vedere i prezzi della spesa lievitare – perché bisogna schierarsi riguardo ad una guerra non nostra. Sembra quasi che ci siamo dimenticati di essere Italiani per diventare di volta in volta qualcos’altro a seconda di ciò che va di moda in Occidente, dal Kurdistan all’Ucraina.
Forse è questa la battaglia culturale principale che bisogna combattere in questo secolo. Fare tornare gli Italiani a sentirsi Italiani, sbarazzarsi di questa anacronistica logica da guerra fredda “da una parte o dall’altra” perché il nostro interesse, poche storie, è quello di cercare di intrattenere rapporti buoni con tutti indifferentemente dai loro comportamenti più o meno scorretti con i vicini o con i concorrenti geopolitici. Bisogna capire che i nostri interessi devono essere anteposti a quelli degli altri, non foss’altro perché le superpotenze ragionano esattamente così, e come lo fanno loro dobbiamo farlo anche noi. Considerare le esigenze dei cittadini italiani prima di tutto; essere filo-italiani, prima ancora di essere filoccidentali o filoorientali a seconda delle proprie simpatie; una volta tanto, potremmo cominciare a simpatizzare per noi stessi.
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