Vincoli alla circolazione dei capitali e principi costituzionali
Stefano D'Andrea
Questo post, pur dotato di completa autonomia, è il seguito di altri: 1. Un provvedimento normativo cinese, bielorusso o fascista? 2. Un breve commento agli artt. 2, 4, 5 e 6 del D. L. 6 giugno 1956, n. 476 3 L'Italia era proprio come la Cina contemporanea 4. Il controllo sulla esportazione della valuta e il “monopolio” dell’Ufficio Italiano cambi (UIC)
5. Vincoli alla circolazione dei capitali e principi costituzionali.
La disciplina che vincolava la circolazione dei capitali, vigente in Italia fino al 1988, non diversamente da altre discipline simili, non svolgeva la semplice funzione di assicurare allo Stato uno strumento per tenere sotto controllo la bilancia dei pagamenti, come superficialmente si potrebbe essere indotti a credere, bensì anche altre svariate e fondamentali funzioni, attuative di principi costituzionali.
5.1 Intanto, un ordinamento giuridico che richieda autorizzazioni ministeriali per eseguire compravendite volte ad importare merci (art. 2 D. L 6 giugno 1956 efficace fino al 1988 e abrogato nel 1989), svolge di fatto la funzione di promuovere la produzione interna. Per promuovere la produzione interna delle merci, si sacrifica la “sovranità del consumatore”, ossia il diritto del consumatore di acquistare ogni bene prodotto in qualunque luogo della terra al minor prezzo possibile nonché il diritto di acquistare beni “prodotti” in Italia con componenti provenienti dall’estero, e quindi a più basso prezzo.
Infatti, molti imprenditori tenderanno a non rischiare di veder negata l’autorizzazione e a non attendere i tempi richiesti dal procedimento amministrativo. Pertanto acquisteranno sul mercato nazionale i beni strumentali e gli elementi che compongono la merce da essi prodotta e venduta. Lo stesso mestiere di importatore sarà più complesso e rischioso, sicché in molti tenderanno, almeno nei casi in cui il giro di affari non è notevole, ad acquistare sul mercato nazionale il tipo di beni che intendono ri-vendere, anziché acquistarli all’estero.
Di fatto, dunque, la disciplina vincolistica, fondata sulle autorizzazioni ministeriali, svolge l’efficacia di promuovere la produzione interna e quindi l’occupazione. Pertanto, essa concorre a promuovere maggiori salari, considerato che i salari crescono al crescere dell’occupazione e stagnano o diminuiscono nei periodi di elevata disoccupazione. Questa funzione è attuativa dell’art. 4, I comma, della Costituzione, secondo il quale la Repubblica “promuove le condizioni che rendano effettivo” il diritto al lavoro e dell’art. 36, I comma, posto che perseguendo la piena occupazione si promuove un salario idoneo a garantire al lavoratore e alla famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”.
5.2 La funzione di promozione della produzione e dell’occupazione è svolta anche di diritto dalle discipline che vincolano la circolazione dei capitali.
Infatti, le autorizzazioni potevano essere negate ed effettivamente erano spesso negate. Somma era la discrezionalità dei Ministri competenti; per essere più precisi era quasi una libertà. Questa era l’opinione pacifica della dottrina, la quale, anzi, sia pure con specifico riguardo alla possibilità di acquistare titoli azionari e obbligazionari emessi all’estero, osservava che la legge “non dice assolutamente quando il ministro può o deve rilasciare l’autorizzazione, con la conseguenza non piccola che il cittadino risparmiatore non solo non risulta affatto incoraggiato a queste forme di investimento spesso assai più vantaggiose di quelle offerte da Madrepatria” – si noti la sprezzante ironia – “ma anzi risulta esposto alla più totale e illimitata discrezionalità del ministro competente e, per lui, della burocrazia ministeriale e delle burocrazie parallele” (1). Simmetricamente, con riguardo alle autorizzazioni all’esecuzione di contratti di importazione ed esportazione, la dottrina osservava come si trattasse di “provvedimenti eminentemente discrezionali, che l’autorità competente può concedere e revocare in base ad una valutazione – quanto mai libera – dell’interesse pubblico protetto dalle norme valutarie” (2). Ho svolto una ricerca sulla mia banca dati e dal 1980 non sembra essere stata emessa nemmeno una sentenza chiamata a decidere su una impugnazione di provvedimenti ministeriali di diniego dell’autorizzazione: i provvedimenti di diniego non erano impugnati!
Insomma lo Stato, negando le autorizzazioni con provvedimenti di diritto o di fatto insindacabili e quindi non impugnabili vittoriosamente, perseguiva lo sviluppo del sistema produttivo nazionale e dell’occupazione. E’ evidente, infatti, che, pur liberalizzata la circolazione delle merci e dei servizi, i vincoli alla circolazione della moneta possono impedire, e di fatto impediscono, la libera circolazione di merci e servizi.
Come è noto, di recente, lo Stato argentino ha adottato una politica di dinieghi di autorizzazioni amministrative alle importazioni, per evitare la fuoriuscita di capitali e per promuovere investimenti e occupazione interni: “Solo i piccoli importatori riescono ad infiltrarsi nelle maglie del protezionismo argentino: il presidente della camera di rappresentanza del settore, Cira (Camara de Importadores de la Republica Argentina), lo ha riconosciuto chiaramente: “Le imprese che durante l’anno scorso hanno importato per un valore inferiore ai 500 mila pesos ottengono il permesso d’entrata per il loro beni in modo più fluido”. A quanto pare, questo sarebbe uno dei parametri con cui le auotorità argentine valutano la concessione o meno di una licenza d’importazione, caso in cui sono rientrate finora solo il 28,5% delle richieste totali, mentre il 55,7% è ancora al vaglio degli uffici competenti ed il 15,7% è stato respinto”.
Qual è l’effetto sul mercato valutario di simili provvedimenti? L’effetto è quello di far diminuire la domanda della moneta del commercio internazionale, ossia del dollaro: “Gli operatori di scambio parlano di uno “svuotamento” della domanda di dollari da parte degli importatori che, non potendo più acquistare sui mercati esteri, hanno diminuito di una proporzione compresa tra il 20 ed il 30% le loro richieste di moneta americana. Chi vuole importare, deve infatti superare i controlli di tre istituzioni: l’agenzia delle entrate, Afip, la segreteria per il Commercio Interno, di Guillermo Moreno, e infine la Banca Centrale”(3).
Un vero (solo apparente) paradosso. Il signoraggio del dollaro, l’unico vero signoraggio rilevante, non si combatte creando l’euro nella vana speranza che questa moneta vada a contendere il ruolo del dollaro come moneta degli scambi internazionale (oltre che come moneta di riserva delle banche centrali) – senza la tutela delle armi non si va da nessuna parte; infatti quando Saddam, nel novembre del 2000, annunciò che il petrolio iracheno sarebbe stato venduto in euro, e gli Stati Uniti decisero di invadere l’Iraq, le nazioni europee si schierarono con gli Stati Uniti e contro l’Iraq! Al contrario, il signoraggio del dollaro si combatte riducendo il commercio internazionale e sviluppando la produzione interna di merci, per quanto è possibile. Insomma, la moneta imperiale si combatte abbandonando il dogma della sovranità del consumatore e tornando alla sovranità degli Stati.
5.3. Abbiamo illustrato come l’art. 5, I comma, del D.L. n. 476 del 1956 prevedesse che “: Ai residenti è fatto divieto di possedere quote di partecipazione in società aventi la sede fuori del territorio della Repubblica nonché titoli azionari e obbligazionari emessi o pagabili all'estero se non in base ad autorizzazioni ministeriali”.
Anche sotto questo specifico profilo, il controllo amministrativo (in realtà politico) sulla circolazione dei capitali consentiva di indirizzare il risparmio che si voleva investire in azioni e obbligazioni societarie verso i grandi complessi produttivi del paese. Il perseguimento di questo fine non corrispondeva a una libera scelta dal legislatore ma costituiva attuazione di un ben preciso dovere nascente dalla Costituzione. Infatti, l’art. 47, 2° comma, della Costituzione prevede che la Repubblica “favorisce l’accesso del risparmio popolare… al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”.
La scelta di liberalizzare la circolazione dei capitali, oltre ad essere opinabile e anzi nociva sotto molteplici punti di vista, è in chiaro contrasto con la citata norma costituzionale. E in fondo, come abbiamo accennato, sacrifica anche il principio per il quale la Repubblica “promuove le condizioni che rendano effettivo” il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), ossia è obbligata a promuovere la piena occupazione, e indirettamente, quindi, il diritto a un salario dignitoso.
5.4. I rigidi vincoli alla circolazione dei capitali, furono lo strumento fondamentale della politica economica di repressione (della rendita) finanziaria attuata dai Governi italiani fino al 1980. Fondamentale nel senso che senza di esso le altre discipline sarebbero state inefficaci o poco efficaci.
Dal 1945 fino all’alta inflazione generata dalla crisi petrolifera del 1973, lo Stato italiano riuscì ad assicurare stabilmente il pagamento di interessi reali negativi sui titoli del debito pubblico (ossia inferiori all’inflazione), in forza di alcuni istituti, che possiamo considerare il regime ordinario della repressione (della rendita) finanziaria: i) la disciplina vincolistica della circolazione dei capitali; ii) un’alta percentuale di riserva obbligatoria che, direttamente o indirettamente (per il tramite della Banca d’Italia), faceva sì che una parte rilevante del risparmio degli italiani, depositato presso le banche, venisse utilizzato per acquistare titoli del debito pubblico; iii) la facoltà della Banca d’Italia di acquistare titoli del debito pubblico, in particolare mediante il denaro depositato dalle banche commerciali nei conti correnti nei quali affluiva l’altissima riserva obbligatoria, (in altri ordinamento la riserva obbligatoria era modesta); iv) la retrocessione dalla Banca d’Italia al tesoro della differenza tra gli interessi resi dai titoli del debito pubblico e il rendimento pagato dalla Banca centrale alle banche commerciali per il versamento del denaro sul conto fruttifero; v) lo scoperto di conto corrente di Tesoreria concesso per legge al Ministero del Tesoro dalla Banca d’Italia, fino al 14% (15% prima del 1965) delle spese finali del bilancio di competenza. L’interesse era fissato nella misura dell’1% (anche quando l’inflazione era del 10 o 20%!) e le spese di tenuta del conto erano forfettarie e avevano carattere simbolico (7).
La disciplina vincolistica in materia di circolazione dei capitali, la quale tendeva a convogliare il risparmio italiano verso titoli obbligazionari emessi in Italia e in particolare verso titoli di Stato, costituiva in certo senso il necessario presupposto logico-giuridico perché gli altri istituti – ad eccezione di quello, certamente autonomo, indicato al punto v) – potessero svolgere la funzione alla quale erano destinati. La disciplina vincolistica della circolazione dei capitali è presidio indispensabile per una politica di repressione finanziaria.
La congiuntura sorta dalla crisi petrolifera del 1973, caratterizzata da alta inflazione e da una differenza particolarmente elevata tra il tasso d’inflazione e il rendimento dei titoli di stato, fece sorgere spinte dei risparmiatori ad esportare illegalmente capitali, ad acquistare beni rifugio (immobili, in particolare, che nella seconda metà degli anni settanta quasi raddoppiavano di prezzo in due anni) e, quindi, a diminuire la domanda di titoli del debito pubblico con il conseguente rischio di innalzamento del tasso di interesse.
Vennero, perciò, introdotti istituti straordinari, volti a mantenere bassi e negativi i tassi di interesse sul debito pubblico. Li chiamerei, nel complesso, regime straordinario di repressione della rendita finanziaria.
Alla banca d’Italia, mediante una semplice convenzione tra quest’ultima e Tesoro fu imposto l’obbligo di acquistare, al momento dell’emissione, i titoli di stato residuali, emessi e non domandati dal altri soggetti (1975). Il regime di vincoli alla circolazione dei capitali fu inasprito, introducendo numerosi reati penali in luogo dei precedenti illeciti amministrativi (L. 30 aprile 1976, n. 159). Alle banche commerciali fu imposto il vincolo di portafoglio ( 1973); e (anche) per evitare la corsa ai beni rifugio fu introdotto l’equo canone (1978) (4)
Mediante l’adozione del regime straordinario di repressione finanziaria, l’Italia fu l’unica potenza economica europea che riuscì a mantenere sistematicamente negativi i tassi di interesse reali. E lo strumento principale della politica di repressione finanziaria consistette nella rigida disciplina di vincoli alla circolazione dei capitali. E’ stato osservato in proposito, sebbene con accento critico e in una prospettiva favorevole alla liberalizzazione che sarebbe poi intervenuta, che “Il controllo dei movimenti dei capitali attuato negli anni 70 ha consentito una politica dei tassi d’interesse reale “ininterrottamente negativa”, a fronte dei tassi d’interesse reale positivi in Francia, Regno Unito e Germania; l’essere stati costretti dalla contingenza valutaria ad impedire la libera circolazione dei capitali, ha fatto pagare il prezzo più alto ai risparmiatori, a vantaggio delle imprese che hanno potuto finanziarsi a tassi d’interesse reali negativi” (5)
E’ evidente, infatti, che adottata una disciplina meno vincolistica o addirittura liberale in materia di circolazione dei capitali, tutte le altre norme (con l’eccezione dell’obbligo della Banca centrale di acquistare titoli) tendono a divenire inefficaci o comunque meno efficaci, perché i risparmiatori e i gestori del risparmio tenderanno ad allocare quest’ultimo all’estero (o a preferire immobili e oro). Né ha senso fondare il regime di repressione (della rendita) finanziaria sul solo obbligo della Banca centrale di acquistare i titoli residuali, se al contempo non si canalizza, in misura adeguata, il risparmio della nazione verso i titoli del debito pubblico. Infatti, i titoli “residuali” acquistati dalla banca centrale sarebbero o potrebbero divenire eccessivi e in pochi anni verrebbe a diminuirebbe eccessivamente e magari quasi a mancare il ritiro della moneta in circolazione mediante emissione di titoli del debito pubblico. Con la conseguenza che, senza un correlativo inasprimento delle imposte e tanto più in periodi di alta o piena occupazione, si produrrebbero effetti inflattivi (l’aumento della moneta non è l’unica causa dei fenomeni inflattivi ma è una causa, tanto più quando è enorme e avviene in condizioni di alta occupazione). Insomma, si tratta di una manovra che può essere strumento ordinario se è residuale e che deve essere strumento eccezionale negli altri casi.
5.5. Sebbene nessuna norma costituzionale imponga espressamente alla Repubblica di reprimere la rendita finanziaria, si deve reputare che il dovere costituzionale del legislatore ordinario derivi come corollario da due precise norme costituzionali. Da un lato, la norma che vuole la Repubblica “fondata sul lavoro” (art. 1; ma cfr. anche l’art. 4, 2° comma, che impone al legislatore di promuovere la piena occupazione); dall’altro, la norma che riconosce che “L’iniziativa economica privata è libera” anche se “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. L’equilibrio tra i due principi non è frutto di interpretazione di norme costituzionali, bensì dipende dalle forze politiche prevalenti nel Popolo, nel Parlamento e nel Governo, le quali possono aumentare la tutela del capitale, soltanto nella misura in cui si propongano comunque di promuovere la piena occupazione. Se tuttavia non si può disconoscere una certa discrezionalità politica nella ponderazione degli interessi contrapposti di capitale e lavoro (salvo abbandonarsi a declamazioni ideologiche che lasciano il tempo che trovano), è certo che, alla luce della nostra Costituzione, il legislatore non ha alcuna libertà di sacrificare capitale investito in attività produttive e lavoro (profitti, occupazione e salari) per tutelare la rendita finanziaria. Tutto ciò che va alla rendita finanziaria tende a tradursi, prima o poi, in imposte sui redditi da lavoro (autonomo o subordinato) e in imposte sui profitti, in imposte indirette, o in tagli ai servizi pubblici (e ormai anche alle funzioni pubbliche: si pensi alla vergognosa chiusura di trentuno Tribunali italiani).
Si deve quindi concludere che la Costituzione della Repubblica Italiana impone al legislatore di pagare tassi d’interesse reale negativi sui titoli del debito pubblico. La libertà di circolazione dei capitali – più ancora che “il divorzio” tra banca d’Italia e Tesoro, posto che “il matrimonio” era parte del regime straordinario di repressione della rendita finanziaria – è un principio che ripugna al nostro ordinamento costituzionale.
Note
(1) Francesco Paolo Pugliese, Normazione valutaria italiana, in Il sistema valutario italiano, I, L’ordinamento valutario, a cura di F. Capriglione e Vincenzo Mezzacapo, 1981, p. 93.
(2) Gian Luigi Tosato, I contratti con i residenti nella C.E.E., in in Il sistema valutario italiano, I, cit., p. 381.
(4) Sul regime ordinario e straordinario di repressione finanziaria rinvio al mio articolo Repressione finanziaria, potere monetario e cancellazione del debito http://www.riconquistarelasovranita.it/?p=275
(5) Orlando Rosselli, Governo valutario, liberalizzazione ed unione monetaria europea, Torino, 1996, p. 74, testo e nota 87, il quale cita l’intervento di Lucio Rondelli (che è stato vice presidente dell’ABI e presidente di Banca italease e di Unicredito: ohibò!) “ad uno dei convegni più importanti di questo periodo in materia valutaria”, organizzato a Genova il 28-29 ottobre 1983 dalla locale Camera di commercio e da quelle di Milano e di Torino (atti pubblicati in in AA.VV., La riforma della normativa valutaria, Padova, 1984, p.65 s.). Insomma, coloro che avevano accumulato risparmio dovevano ottenere una rendita, a discapito degli imprenditori e quindi anche dell’occupazione! E a promuovere le riforme liberalizzatrici erano i banchieri (e l’Unione europea)!
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