Apologia dell'”umile Italia”
Il 3 ottobre 1935, giorno in cui le truppe di De Bono invadono l’Etiopia, il podestà di Gagliano raduna in piazza la popolazione per dare il solenne annuncio, come centinaia di suoi colleghi stanno sicuramente facendo negli stessi istanti in ogni angolo d’Italia. I carabinieri e gli avanguardisti hanno raccolto anche una ventina di cafoni, che ascoltano con distacco malinconico un discorso infarcito, secondo lo spirito del tempo, di vieta retorica imperialista e nazionalista.
Nel suo libro più noto, Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato nel 1945, Carlo Levi dedica alla descrizione di quell’adunata una paginetta scarsa. Non gli interessa più di tanto mettere in risalto il lato ridicolo, o meglio tragicomico, del fascismo, evidente di per sé. La sua preoccupazione è tutt’altra: comprendere la tristezza e l’indifferenza di quei contadini, spiegare le cause, le origini lontane di un dolore così radicato e così chiaramente leggibile sui volti, nelle posture dei corpi. A questo punto ha inizio una lunga digressione storico-antropologica in cui Levi dimostra una straordinaria capacità di empatia nei confronti dell’oggetto della sua analisi.
“Parlavo con i contadini, e ne guardavo i visi, e le forme: piccoli, neri, con le teste rotonde, i grandi occhi e le labbra sottili, nel loro aspetto arcaico essi non avevano nulla dei romani, né dei greci, né degli etruschi, né dei normanni, né degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime. Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale nei tempi più remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli”.
Le vicende millenarie del mondo rurale, dell’”umile Italia”, non appartengono alla storia con il suo fluire impetuoso ma si collocano nel tempo immobile della leggenda: quella che sotto l’aspetto spirituale è una ricchezza inestimabile si rivela, all’atto pratico, un punto debole micidiale. Infatti, osserva Levi, ogni volta che la preistorica cultura contadina si è scontrata con potenze a pieno titolo storiche, come l’Impero romano o lo Stato unitario italiano dopo il 1860, è uscita sconfitta, anche se mai annientata in modo definitivo. E poiché l’umile Italia non ha mai avuto né uno Stato né un esercito, queste lotte non sono state vere “guerre nazionali” (come pure le chiama Levi) ma, piuttosto, momentanee esplosioni di violenza cieca, dettata dall’esasperazione e dalla disperazione.
“Il loro cuore è mite, e l’animo paziente. Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. E’ una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte”.
A meno che non vogliamo considerare gli immigrati come, almeno in parte, gli ultimi rappresentanti del mondo contadino (destinati a “integrarsi”, cioè a diventare consumatori frustrati esattamente come gli autoctoni), oggi l’umile Italia di Levi non esiste più. L’impresa che Roma, i Piemontesi e il fascismo non avevano osato neppure concepire, il genocidio della nemica civiltà rurale, è invece riuscita al neocapitalismo negli anni Cinquanta e Sessanta: con lo sradicamento del popolo dalle campagne e con l’industrializzazione ma, soprattutto, attraverso una rapida, capillare colonizzazione dell’immaginario. Non per questo il mio discorso si esaurisce in un requiem per l’ennesima umanità inabissatasi nel ventre oscuro del tempo e ricordata soltanto dai libri.
Nell’ultimo trentennio il neocapitalismo è stato affiancato o rimpiazzato da un capitalismo finanziario ancora più aggressivo, che sta fagocitando la borghesia stessa da cui ebbe origine. L’impoverimento generale causato dalla crisi economica apre scenari tanto drammatici quanto sorprendenti: fra gli altri fenomeni che è dato osservare, si assiste al ritorno in nuove forme dell’umile Italia, dimostrazione che il cammino della storia non è rettilineo ma conosce corsi e ricorsi, alla maniera di una spirale. La nuova umile Italia non conserva legami con la preistoria contadina ma nasce in piena post-storia informatica e globalizzata; ha sì dovuto riscoprire virtù antiche come la pazienza, la sobrietà, la costanza ma, in misura senza dubbio superiore rispetto alle classi subalterne del passato, dispone degli strumenti per studiare e valutare criticamente gli eventi, comprendere i meccanismi del gioco perverso che può condurla alla rovina. E’ umile, ma non disposta a farsi umiliare; è abbastanza istruita e accorta da non trasformare la protesta in riot autodistruttivo.
Lo spunto di maggiore attualità offerto dalla riflessione di Levi è però un altro. L’Italia preistorica, si diceva, non ha mai avuto uno Stato né un esercito. Levi nota anche che essa non ha sviluppato nessuna religione, vivendo per millenni immersa nella dimensione dell’immanenza integrale, in cui la natura non è separata dal sacro. Ora è più chiaro in che senso bisogna intendere l’humilitas: non si tratta semplicemente di una qualità dell’anima, di un’attitudine morale. L’umiltà è la radice di una religiosità senza istituzioni e senza trascendenza, fondata sul senso della terra, humus, e avversaria perciò di qualsiasi forma di teologia politica – compresa quella, tutta particolare, di cui è espressione l’Unione Europea. L’umile Italia ha combattuto le teocrazie antiche con la stessa ostinata fierezza con cui si è opposta allo Stato liberale secolarizzato. Ha perso, e forse doveva essere così, ma la sua eredità rimane forte e continua a illuminare la notte.
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