di Stefano D’Andrea
Da tempo, in Italia, quasi non vi sono più partiti che si candidino per essere eletti in Parlamento. Intendiamo partiti che si candidino per parlare della situazione politico-giuridica e della direzione che si vuole imprimere, mediante l’attività legislativa, alla vita collettiva della nazione.
Da tempo i partiti non si candidano alle elezioni politiche parlamentari per parlare, ma per governare. E infatti non si candidano i partiti ma le coalizioni. Due coalizioni di partiti, godendo per diritto – in particolare in forza della modifica delle leggi elettorali proporzionali e della legislazione sul finanziamento pubblico dei partiti – di posizione privilegiate (e si tratta di privilegio giuridico, non di mero fatto) rispetto a possibili nuovi partiti, si offrono alla scelta del popolo, raccomandando il voto utile e spingendo silenziosamente al non voto molte tra le forze più sane della nazione.
Da un lato i cittadini sono sottoposti ad un potere – il privilegio conferisce un potere – che ostacola l’emersione di idee e proposte nuove; dall’altro le coalizioni non si candidano per parlare, bensì esclusivamente per governare. La parola è ormai inutile. Non c’è da parlare.
Non c’è da parlare, perché non c’è da pensare. Pensare significa vagliare ipotesi alternative. Scegliere tra diversi principi. Ma da lungo tempo il Parlamento non è più chiamato a scegliere tra principi, bensì, al più, tra norme di dettaglio.
Non c’è da pensare. C’è si da introdurre norme, ossia scrivere parole vincolanti per il popolo italiano – invero sempre più mediante decreti legislativi e regolamenti con deleghe in bianco ovvero mediante decreti legge -; ma legiferare ormai da lungo tempo significa applicare ed adeguare. Ed è per questo che basta un governo e non serve il Parlamento.
Applicare le direttive europee; applicare gli accordi del wto; applicare il principio della libera concorrenza; applicare il dogma delle privatizzazione delle imprese pubbliche; applicare i suggerimenti della analisi economica del diritto; applicare il principio più caro al capitale finanziario, ossia il principio di non tassare severamente le rendite; applicare il principio della precarietà del lavoro subordinato; adeguare la legislazione di spesa e tutta quella connessa ai criteri di Maastricht; applicare gli accordi di Schengen; applicare la strategia di Lisbona; applicare il principio “economico” (ossia l’inganno ideologico) che si crea valore anche se si moltiplicano gli intermediari; applicare il principio che bisogna lasciare al “mercato” la decisione sui rapporti di forza tra produttori e intermediari; applicare la suprema direttiva della libera circolazione mondiale del capitale finanziario; adeguarsi alla dottrina della guerra preventiva; addirittura applicare le direttive del vaticano; e così via.
E anche là dove sembravano esservi spazi di libertà, in realtà le coalizioni che si sono succedute al governo si sono ingegnate nell’applicare il modello statunitense, nel tentativo, ingenuo, oltre che malefico, di “importare il sistema”, scambiando così il modello con la realtà.
È verosimile che la crisi economica , aggravandosi, possa cambiare, almeno in parte, le cose. Ma intanro è indubbio che negli ultimi anni il Parlamento non è stato un decisore, bensì un esecutore.
Proprio per il ruolo di esecutrici, le due coalizioni sono state e sono omogenee. E non potrebbe essere diversamente. Quando si tratta di eseguire ordini o direttive ovvero quando si tratta di applicare e non di legiferare veramente, è naturale che debba esservi un comune consenso sui presupposti – ideali, economici, politici – delle direttive e dei vincoli “giuridici” internazionali.
Da quindici anni, le due coalizioni si contendono il (e si alternano nel) ruolo di esecutore di decisioni prese altrove, ossia in altri luoghi, lontani dall’Italia, e, soprattutto da altri, ossia da soggetti che non sono italiani o comunque non sono politicamente “rappresentanti degli italiani”.
Il ruolo di esecutore assunto dalle due coalizioni, in parte, è sancito espressamente nei trattati europei; per altra parte, è stato la conseguenza della volontaria sottomissione alla linee della politica statunitense; per altra parte ancora, strettamente connessa alle prime due, è dipeso dall’accoglimento quasi generale della ideologia globalista, liberista, mercatista, di idolatria della rendita, consumista e usuraria (“un debito per tutti e una rendita per molti!” sembra essere stata l’idea nascosta dagli slogan dissimulatori).
Il ruolo di esecutrici assunto dalle coalizioni, ne implica la assoluta omogeneità sulle questioni politiche essenziali e di fondo. Una omogeneità dissimulata attraverso i litigi e gli insulti dei piccoli uomini che, ad oggi, gli italiani sono in grado di eleggere ed eleggono in Parlamento.
Perciò il Parlamento è morente. Non è il luogo dove si ragiona sulle modalità e i tempi di attuazione della Costituzione. Né è il luogo dove si scelgono chiari principi. Per fare un solo esempio. Bisogna o no promuovere la possibilità che un uomo con il proprio lavoro viva sulla propria terra? È un dubbio che il Parlamento non può nemmeno sollevare; perché una risposta positiva significherebbe aver scelto di emanare una legislazione sistematicamente contrastante con i trattati europei (e con altri trattati internazionali). La scelta è stata già fatta. No. Non bisogna promuovere quella possibilità. Le regole del libero mercato non lo permettono: esse, anzi, subdolamente promuovono la impossibilità che un uomo riesca a vivere con il proprio lavoro sulla propria terra. Ma allora, se questo tema fondamentale, non diversamente da moltissimi altri, non può nemmeno essere discusso salvo che tra mille ipocrisie e finzioni, a cosa serve il Parlamento?
Il Parlamento, negli ultimi quindici anni, è stato il luogo dove sono state eseguite decisioni altrui: decisioni prese da stranieri; dalle burocrazie europee; decisioni imposte dalle lobby; decisioni fondate su ideologie elaborate al di fuori dei nostri centri politici e culturali: dico nostri di italiani; decisioni che applicano direttive provenienti dai pochi gestori e dagli ancor meno proprietari dei grandi capitali finanziari.
La omogeneità politica degli esecutori di quelle decisioni è un dato intrinseco alla situazione politica italiana. Se sono esecutrici scambiabili – chiunque vinca comunque esegue quei principi – allora le due coalizioni sono uguali o sostanzialmente uguali.
E infatti i principi comunemente accolti dalle due coalizioni – i principi che esse hanno applicato, eventualmente con sfumature diverse – sono innumerevoli. Ci sembra importante farne un breve elenco.
Nessuna delle coalizioni che hanno governato l’Italia negli ultimi quindici anni è stata contraria all’Europa liberista e monetaria. Soprattutto nessuna delle due coalizioni è stata contraria all’Europa delle Banche private.
Nessuna delle due coalizioni ha difeso tenacemente l’idea che il tentativo di costruire un’Europa politica imponesse un contratto collettivo di lavoro europeo. Nessuna delle due coalizione si è scandalizzata del fatto che i principi dei trattati europei avrebbero consentito alle imprese italiane di chiudere gli stabilimenti in Italia e di trasferirli in Polonia.
Nessuna delle due coalizioni ha contrastato la politica di indebitamento dei cittadini, che invece è stata perseguita da entrambe, contro il dettato costituzionale, secondo il quale “la Repubblica incoraggia … il risparmio” e non il debito. Le due coalizione intendevano e intendono conservare il potere andando contro un dettato costituzionale, perché se si fa credito al cittadino, la droga del credito attenua il conflitto sociale, con la conseguenza che non si è costretti a cercare una equilibrata politica dei redditi e le coalizioni al potere vi restano.
Nessuna delle due coalizioni ha contrastato la “tendenza internazionale” a valorizzare i marchi, ad ampliare il campo del brevettabile, a creare i “diritti sportivi”, a tutelare anche (pretese) entità immateriali non brevettabili, suscettibili di figurare in bilancio (come il cosiddetto know-how). Nessuna di esse si è chiesta se questi nuovi principi giuridici fossero giusti o almeno convenienti per il popolo italiano e per quale parte di esso. Le direttive andavano applicate.
Nessuna delle due coalizioni ha lanciato un grido di disperazione perché la tecnica del franchising e i grandi centri commerciali espellevano dal commercio tanti dignitosi commercianti, per sostituirli, molto spesso, in forza di contratti feudali più gravosi della mezzadria, con servi che, sotto le mentite spoglie di una attività autonoma, hanno un enorme vincolo di soggezione nei confronti del loro padrone. Il medesimo ragionamento vale per le concessioni di vendita e i concessionari.
Nessuna delle due coalizioni, a difesa del sacro principio del carattere personale della prestazione professionale, si è detta contraria alla emersione dei grandi studi professionali internazionali, nei quali decine o centinaia di pretesi liberi professionisti sono in realtà lavoratori subordinati – con molti tratti di lavoro servile e sempre salvo il “licenziamento” quando viene a mancare la “domanda” – che lavorano per valorizzare il capitale investito nello studio-azienda. Si tratta sovente di “professionisti” molto più alienati della media degli operai.
Entrambe le coalizioni sono state favorevoli a mantenere i meccanismi elettorali maggioritari recentemente introdotti.
Entrambe le coalizioni hanno reputato che le Regioni dovessero avere maggiori poteri normativi rispetto alla scelta effettuata dai nostri padri costituenti.
Entrambe le coalizioni hanno reputato che il lavoro subordinato dovesse essere più precario rispetto alla stabilità della quale godeva in passato.
Entrambe hanno convenuto che il sistema pensionistico a ripartizione andasse sostituito con quello contributivo.
Entrambe le coalizioni sono state favorevoli a concedere alle Università pubbliche l’“autonomia”. Le due coalizioni sono entrambe colpevoli per aver introdotto o per non aver eliminato, nell’ordinamento scolastico e universitario, i concetti di “credito formativo” e di “debito formativo”; per aver creato e mantenuto la fasulla laurea triennale; per aver promosso e non aver arrestato la proliferazione delle sedi universitarie, delle Facoltà e dei corsi di laurea; per aver aderito alla malefica strategia di Lisbona.
Entrambe le coalizioni hanno sostenuto l’ipocrita tesi che l’esercito italiano sia andato in Iraq e in Afganistan non per fare la guerra bensì per portare la pace.
Nessuna delle due coalizioni si è mai professata contraria alla possibilità che le banche che raccolgono risparmio ed erogano credito siano private. Nessuna ha mai asserito severamente che quelle banche, o almeno le più grandi, devono essere pubbliche. Nessuna delle due coalizioni ha mai proposto che la riserva obbligatoria bancaria debba essere aumentata e che la manovra della riserva obbligatoria debba tornare tra le competenze del Parlamento e del Governo. Nessuna delle due coalizioni ha impedito o soltanto contestato la perdita della sovranità popolare, almeno formale, sulla Banca d’Italia: invero una di esse si è proposta di tornare alla sovranità popolare (sotto il profilo formale); ma si è data tre anni di tempo; e dopo essere tornata al governo, ha lasciato scadere il termine: come se si trattasse di modificare una qualsiasi disposizione di una disciplina di settore. Nessuna delle due coalizioni si è opposta alla reintroduzione, a rigore introduzione, dell’anatocismo bancario, ossia la produzione degli interessi sugli interessi prima del giorno della domanda giudiziale: sappiate che nei rapporti bancari oggi l’anatocismo è la regola generale, mentre prima le cose stavano diversamente.
Nessuna delle due coalizioni si è preoccupata perché il valore degli immobili aumentava progressivamente e notevolmente, giungendo, in pochi anni, fino a raddoppiare. Mentre, per lo più, gli stipendi e i redditi da lavoro autonomo non raddoppiavano. Con la conseguenza che la casa agognata dai cittadini che vivono, più o meno bene, del loro lavoro, non costa più otto o dieci annualità di stipendio o reddito, bensì quindici o venti. Entrambe, anzi, hanno perseguito questo risultato: con l’abrogazione dell’equo canone; non prevedendo sgravi fiscali per le rate di canone e prevedendone per le rate di mutuo; non vietando i mutui ultraventennali per la prima casa; consentendo addirittura i mutui “portabili agli eredi”; abrogando l’ICI; svendendo il patrimonio immobiliare pubblico; non pianificando e non finanziando l’edilizia cooperativa o popolare. Le due coalizioni hanno cominciato a preoccuparsi soltanto quando la bolla immobiliare ha dato segni di essere pronta a sgonfiarsi! Ed è naturale, visto che esse l’hanno volutamente gonfiata. Eppure, dice la nostra Costituzione, “La repubblica favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione”. Legiferare per elevare i prezzi degli immobili o comunque senza preoccuparsi se la legge introdotta ha come effetto economico la lievitazione dei prezzi degli immobili, da un lato, e consentire la validità di mutui quarantennali o addirittura portabili agli eredi, dall’altro, sono veramente un modo singolare per interpretare la norma costituzionale! Come se i costituenti avessero detto al legislatore: strozza il popolo.
Nessuna delle due coalizioni ha mai proposto di spostare sulle rendite – su tutte le rendite – le immani imposte pagate dai lavoratori, autonomi e subordinati. Né esse hanno proposto di tassare severamente le vincite delle scommesse, che non sono né rendite né profitti, ma vincite, appunto.
Nessuna delle due coalizioni ha vietato, almeno agli enti pubblici, la stipulazione di contratti derivati e in particolare dei cosiddetti contratti di swap. È stata una delle due coalizioni a prevedere che ai contratti di swap non si applicasse la disciplina del gioco e della scommessa (art. 1933 cod. civ.), disciplina in forza della quale, da un lato, il giocatore perdente che abbia pagato non può richiedere quanto ha pagato, dall’altro, se il giocatore perdente non paga, al vincitore non è concessa azione giudiziaria. Senza la modifica legislativa, le banche non avrebbero avuto azione per le perdite subite dalle imprese e dagli enti pubblici a causa della incauta – anche se promossa e pubblicizzata dai promotori finanziari – stipulazione di scommesse sull’andamento dei tassi di interesse e dei rapporti di cambio tra valute. Né la seconda coalizione ha abrogato la norma introdotta dalla prima.
Sono state le due coalizioni ad aver introdotto e a non aver successivamente eliminato la seconda e poi la terza estrazione settimanale del lotto; si è trattato di una particolare applicazione dei vincoli di Maastricht! Le due coalizioni hanno accettato supinamente le decisioni della Corte di Giustizia Europea che hanno tentato di rendere lecito il gioco d’azzardo. Sono le due coalizioni a moltiplicare continuamente i concorsi “gratta e vinci” e i concessionari delle “attività di scommesse”.
E potremmo continuare a lungo.
Così stando le cose – e le cose stanno così – è evidente che le “due coalizioni” sono molto più simili che non due correnti di un medesimo vero partito; di un partito democratico o di un partito unico. Sebbene esse non si sforzino, più di tanto, di combattere il dissenso mediante interventi legislativi, le due coalizioni in realtà lo sopprimono costruendo un consenso generale – col supporto dei media nazionali – consenso generale che sembra, per ora, rendere politicamente irrilevante ogni posizione di dissenso (alludiamo al vero dissenso). Dopo anni di consenso generale ormai i cittadini, quando discutono di politica, discutono di questioni secondarie , di norme applicative di principi dati per scontati, di svolgimenti di presupposti impliciti (e taciuti) ovvero della applicazione di quelle direttive alle quali abbiamo testé accennato (sono le discussioni che si svolgono nei salotti di Vespa, di Ballarò e di Anno zero). Principi, presupposti e direttive che invece dovrebbero essere l’oggetto del dibattito politico.
Quanti sono i principi comuni alle due coalizione che non condividete, già soltanto tra quelli testé elencati? Parecchi? Tanti? E allora perché le avete votate? Perché continuate a votarle? Che fate? Votate contro voi stessi? Mi sembra che ci sia materia per pensare.
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Giuseppe
leggo oggi casualmente con molto ritardo l'articolo di stefano d'andrea che mi ha colpito per la profondità di analiusi e col quale concordo pienamente. Sullo sfondo, resta per tutti la domanda "che fare?" ma questo è un altro discorso…
Luciano
Caro Luciano,
sono contento della consonanza di analisi. E convengo che, svolta l'analisi, il problema diventa "che fare?".
Per quanto mi riguarda, devo ancora riuscire a spiegare, a me stesso, prima che agli altri, perché la dimensione politica all'interno della quale noi dobbiamo "fare" è l'Italia; perché quindi devono essere superati alcuni ingenui corollari dell'internazionalismo di "ieri"; perché la teoria politica deve essere riempita anche di una certa dose di "idealismo" (è il tema più difficile, ma anche il più importante: a questo perché ho cominciato a rispondere con "Merci che producono merci", pubblicato ieri…); perché la teoria della decrescita, pur avendo finalità sacrosante, è incoerente e capace di ingannare soltanto poche minoranze, con la conseguenza che deve essere corretta e stravolta (ferme le finalità); e qualche altro perché.
Ben presto, però, conclusa l'analisi concreta della situazione concreta, giungerà il momento di interrogarsi sul "che fare"; e di rispondere.
Fatti sentire ogni tanto. Se poi vuoi apportare un contributo qualsiasi, le porte sono aperte, anzi spalancate.
Ciao
E ci mancherebbe solo questo… i Paesi europei sono diversissimi tra loro per livelli di produttività e dimensioni aziendali…. pensa cosa succederebbe applicando alla piccola impresa del Nord Italia il modello di sindacato franco-tedesco. La concertazione del resto è già di suo pratica assai farraginosa, a livello comunitario sarebbe una camicia di forza. Per il resto, d'accordo su tutto: da un ceto politico ridotto a mero esecutore di direttive esterne non c'è da aspettarsi niente, se non piccoli aggiustamenti e programmi-fotocopia.