La ragioni che spinsero Mazzini alla pubblicazione della “Giovine Italia”
Rileggiamo le parole con cui Giuseppe Mazzini introduceva il primo numero del periodico “La Giovine Italia”, uscito nel 1832. Risaltano il richiamo all’educazione, come prima necessità per un popolo che aspira a rigenerarsi, e l’invito a non affidarsi agli elementi apicali della vecchia società, i quali intendevano cavalcare la spinta al rinnovamento e contemporaneamente adottare un paternalismo volto a raffreddare gli aneliti più vitali nel popolo.
La “giovine Italia”, animata da una fede ottimistica nell’avvenire, avrebbe dovuto da lì in avanti depurarsi degli elementi servili e meschini per assumere (come poi si verificò nei fatti) un carattere marcatamente popolare e progressista. Per questo l’Apostolo del Risorgimento scoprì la necessità di scrivere al popolo e per il popolo. In proposito A. Galante Garrone osservava: «Egli aveva concepito la “Giovine Italia” come un periodico destinato a un’élite, a un partito di quadri: studenti, intellettuali, professionisti della classe media, tutt’al piú artigiani istruiti. Sarebbe poi spettato a costoro, politicamente e culturalmente ispirati dal foglio mazziniano, illuminare e guidare le incolte e ignare masse popolari».
Se la società italiana si è rinnovata, superando così le secolari lotte fratricide tra legittimisti filopapisti e filoimperiali, e giungendo gradualmente alla moderna nozione di sovranità popolare, lo dobbiamo anche e soprattutto all’insegnamento di Giuseppe Mazzini.
(G.L.)
Se un Giornale a noi Italiani esuli raminghi, e sbattuti dalla fortuna fra gente straniera, senza conforto fuorché di speranza, senza pascolo all’anima fuorché d’ira e dolore, non dovesse riuscire che sfogo sterile, noi taceremmo. Fra noi, finora, s’è speso anche troppo tempo in parole: poco in opere; e se non guardassimo che a’ suggerimenti dell’indole propria, il silenzio ci parrebbe degna risposta alle accuse non meditate, e alla prepotenza de’ nostri destini: il silenzio, che freme e sollecita l’ora della giustificazione solenne; ma guardando alle condizioni presenti e al voto che i nostri fratelli ci manifestano, noi sentiamo la necessità di rinnegare ogni tendenza individuale a fronte del vantaggio comune: noi sentiamo urgente il bisogno di alzare una voce libera, franca e severa che parli la parola della verità ai nostri concittadini, e a’ popoli che contemplano la nostra sventura.
Le grandi rivoluzioni si compiono piú coi principii che colle baionette: dapprima nell’ordine morale, poi nel materiale. Le baionette non valgono, se non quando rivendicano o tutelano un diritto: e diritti e doveri nella società emergono tutti da una coscienza profonda, radicata ne’ piú: la cieca forza può generare vittime e martiri e trionfatori; ma il trionfo, collochi la sua corona sulla testa d’un re o d’un tribuno, quand’osta al volere dei piú, rovina pur sempre in tirannide.
I soli principii diffusi e propagati per via di sviluppo intellettuale nell’anime manifestano ne’ popoli il diritto alla libertà, e creandone il bisogno, danno vigore e giustizia di legge alla forza.
Quindi la urgenza dell’istruzione.
[…] In Italia come in ogni paese che aspira a ricrearsi v’è un urto d’elementi diversi, di passioni, che assumono forme varie, d’affetti tendenti in sostanza a uno stesso fine, ma con modificazioni presso che all’infinito. Molti, anime alteramente sdegnose, abborrono lo straniero, e gridano libertà soltanto perché lo straniero la vieta. Ad altri la idea della riunione d’Italia sorride unica, né ad essi increscerebbe il concentrarne le membra sotto l’impero d’una volontà forte, foss’anche di tiranno cittadino, o straniero. Alcuni paurosi delle grandi scosse, e diffidando di potere senza lunghi travagli soffocare ad un tratto tutti quanti gl’interessi privati e le gare di provincia a provincia, s’arretrano davanti al grido d’unione assoluta, ed accetterebbero una divisione che minorasse non fosse altro il numero delle parti. Pochi intendono, o pajono intendere la necessità prepotente, che contende il progresso vero all’Italia, se i tentativi non s’avviino sulle tre basi inseparabili dell’Indipendenza, della Unità, della Libertà. Pur questi pochi aumentano ogni di piú, ed assorbiranno rapidamente tutte l’altre opinioni. L’abborrimento al Tedesco, la smania di scotere il giogo, e il furore di Patria sono passioni universalmente diffuse, e le transazioni, che la paura, e i falsi calcoli diplomatici vorrebbero persuaderci, sfumeranno davanti alla maestà del voto nazionale. Però la questione sotto questo aspetto vive e s’agita fra l’ardire generoso, che tenta il moto, e la tirannide, che fa l’ultime prove e le piú tremende.
Non cosí sui mezzi, pe’ quali può conseguirsi l’intento, e tramutarsi la insurrezione in vittoria stabile ed efficace. Una classe d’uomini influenti per autorità e per ingegno civile contende doversi procedere nella rivoluzione colle cautele diplomatiche, anziché colla energia della fede, e d’una irrevocabile determinazione. Ammettono i principii, rifiutano le conseguenze: deplorano i mali estremi, e proscrivono gl’estremi rimedii: vorrebbero condurre i popoli alla libertà coll’arti, non colla ferocia, della tirannide. Nati, cresciuti, educati a tempi, ne’ quali la coscienza degli uomini liberi era in Italia privilegio di pochi, diffidano della potenza d’un popolo che sorge a rivendicare gloria, diritti, esistenza, diffidano dell’entusiasmo, diffidano d’ogni cosa, fuorché de’ calcoli de’ gabinetti, che ci hanno mille volte venduti, e dell’armi straniere, che ci hanno mille volte traditi. Non sanno, che gli elementi d’una rigenerazione fermentano in Italia da mezzo secolo, e ch’oggi il desiderio del meglio è fremito di moltitudini. Non sanno, che un popolo schiavo da molti secoli non si rigenera se non colla virtú, o colla morte. Non sanno che venti milioni d’uomini, forti di giustizia, e di una volontà ferma, sono invincibili. Diffidano della possibilità di riunirli tutti ad un solo voto; ma essi, tentarono forse l’impresa? Si mostrarono decisi a sotterrarsi per essa? Bandirono la crociata Italiana? Insegnarono al popolo, che non v’era se non una via di salute; che il moto operato per esso doveva sostenersi da esso; che la guerra era inevitabile, disperata, senza tregua fuorché nel sepolcro, o nella vittoria? No: si ristettero quasi attoniti della grandezza dell’opera, o camminarono tentennando, come se la via gloriosa ch’essi calcavano fosse via d’illegalità, o di delitto. Illusero il popolo a sperare nell’osservanza di principii ch’essi traevano dagli archivi de’ congressi o da’ gabinetti: addormentarono l’anime bollenti, che anelavano il sacrificio fecondo, nella fede degli ajuti stranieri: consumarono nella inerzia, o in discussioni di leggi, che non sapevano come difendere, un tempo che dovea consecrarsi tutto a’ fatti magnanimi, e all’armi.
[…] Ma nelle rivoluzioni ogni errore è gradino alla verità. Gli ultimi fatti hanno ammaestrata la crescente generazione piú che non farebbero volumi di teoriche, e noi lo affermiamo, coi moti Italiani del 1831, s’è consumato il divorzio tra la giovine Italia, e gli uomini del passato.
Forse a convincere gl’Italiani che Dio e la fortuna stanno coi forti, e che la vittoria sta sulla punta della spada, non nelle astuzie de’ protocolli, si volea quest’ultimo esempio, dove la fede giurata su’ cadaveri di settemila cittadini fu convertita in patto d’infamia e di delusione. Forse a insegnare che un popolo non deve aspettare libertà da gente straniera, non bastava la vicenda di dieci secoli, né il grido de’ padri caduti maladicendo: e si volea lo spergiuro di uomini liberi insorti sei mesi prima contro ad uno spergiuro, poi l’esilio, le persecuzioni, e lo scherno. Ora, la Italia del XIX secolo sa che la unità dell’impresa è condizione senza la quale non è via di salute: che una rivoluzione è una dichiarazione di guerra a morte fra due principii: che i destini della Italia hanno a decidersi nelle pianure Lombarde, e la pace a fermarsi oltre l’Alpi: che non si combatte, né si vince senza le moltitudini, e che il segreto per concitarle sta nelle mani degli uomini, che sanno combattere e vincere alla loro testa: che a cose nuove si richiedono uomini nuovi, non sottomessi all’impero di vecchie abitudini o di antichi sistemi, vergini d’anima e d’interessi, potenti d’ira e d’amore, e immedesimati in una idea: che il segreto della potenza sta nella fede, la virtú vera nel sagrificio, la politica nell’essere e mostrarsi forti.
Questo sa la Giovine Italia, e intende l’altezza della sua missione, e l’adempirà, noi lo giuriamo per le mille vittime, che si succedono instancabili da dieci anni a provare, che colle persecuzioni non si spengono, bensì si ritemprano le opinioni: lo giuriamo per lo spirito, che insegna il progresso, pei giovani combattenti di Rimini, pel sangue dei martiri Modenesi. V’è tutta una religione in quel sangue: nessuna forza può soffocare la semenza di libertà, però ch’essa ha germogliato nel sangue dei forti. Oggi ancora la nostra è la religione del martirio: domani sarà la religione della vittoria.
E a noi giovani, e credenti nell’istessa fede, corre debito di soccorrere alla santa causa in tutti i modi possibili. Poiché i tempi ci vietano l’opre del braccio, noi scriveremo. La Giovine Italia ha bisogno di ordinare a sistema le idee che fremono sconnesse e isolate nelle sue file: ha bisogno di purificare d’ogni abitudine di servaggio, d’ogni affetto men che grande questo elemento nuovo e potente di vita che la spinge a rigenerarsi: e noi, fidando nell’ajuto Italiano, tenteremo di farlo: tenteremo di farci interpreti di quanti bisogni, di quante sciagure, di quante speranze costituiscono la Italia del secolo XIX.
[…] Noi snuderemo le nostre ferite: mostreremo allo straniero di qual sangue grondi quella pace alla quale ci sagrificarono le codardie diplomatiche: diremo gli obblighi che correvano a’ popoli verso di noi, e gl’inganni, che ci han posto in fondo: trarremo dalle carceri, e dalle tenebre del dispotismo i documenti della nostra condizione, delle nostre passioni, e delle nostre virtú: scenderemo nelle fosse riempiute dell’ossa de’ nostri martiri, escompiglieremo quell’ossa, ed evocheremo que’ grandi sconosciuti, ponendoli davanti alle nazioni, come testimoni muti de’ nostri infortuni, della nostra costanza, e della loro colpevole indifferenza. Un gemito tremendo di dolore, e d’illusioni tradite sorge da quella rovina, che l’Europa contempla fredda, e dimentica, che da quella rovina si diffondeva ad essa due volte il raggio dell’incivìlimento, e della libertà. E noi, lo raccorremo quel gemito, e lo ripeteremo all’Europa, onde essa v’impari tutta l’ampiezza del suo misfatto, e diremo a’ popoli: queste son l’anime che voi avete trafficate sinora: questa è la terra, che avete condannata alla solitudine e all’eternità del servaggio!
(da Scritti di Giuseppe Mazzini, Zanichelli, Bologna 1920).
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