La mancanza di una cultura politica
di DAVIDE VISIGALLI (ARS Liguria)
Qui vi voglio proporre un’analisi interessante di Friedmann, sociologo tedesco-americano (tratto da: Lucania trent’anni dopo, La critica sociologica, fase 69, primavera 1994). Lo studioso fa un confronto, basato su esperienze soggettive, tra la Lucania post II guerra mondiale e quella di 30 anni dopo, quando vi ritornò. Ho ripreso questo testo perché penso sia in grado di dare uno spaccato sociale non banale di quei periodi storici, da cui l’autore ne trae un’analisi generale condivisibile, a mio parere, su progresso e cultura.
Per la prima volta dopo 30 anni sono tornato in Lucania. Allora venivo dall’America, dove mi aveva scacciato il nazismo; adesso dalla Germania occidentale, dove ero tornato nel 1960. Pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale c’erano per me e per i miei amici alcune novità ovvie, anche se non sempre eravamo d’accordo: anzitutto la speranza in un mondo più giusto, verso il quale impegnavamo tutte le nostre forze. Oggi quella ingenua fiducia da pionieri è da tempo caduta. Al posto della speranza è subentrata una ostinata volontà di sopravvivere, che vorrebbe dare una smentita al calcolo delle probabilità. Nel 1950 avevo letto «Cristo si è fermato ad Eboli», avevo conosciuto Carlo Levi, che mi aveva mandato a Tricarico dal suo amico Rocco Scotellaro. Quest’anno colà sono stato ospite di Rocco Mazzarone, con il quale siamo andati di paese in paese, anche ad Aliano dove Levi era stato confinato dal fascismo. Sulla via del ritorno ci eravamo fermati in una trattoria in vicinanza di un lago artificiale. Il cameriere era di Aliano e quando noi gli dicemmo che avevamo visitato la tomba di Carlo Levi, disse che questi, secondo la sua opinione, aveva recato molto male alla Lucania: perché aveva raccontato al mondo intero l’arretratezza i pregiudizi, certi riti primitivi della Lucania? Solo per mostrare quanto eravamo migliori noi, i «signori» della grande città! Forse quel giovanotto di Aliano aveva ragione, ma io allora l’avevo intesa in un altro modo. La Lucania mi era apparsa come in assoluto contrasto con l’America. Per esempio, circa il posto e la funzione della razionalità e della irrazionalità. In America, l’irrazionalità del calvinismo, il fatto che nessuno era in grado di sapere se Dio lo aveva scelto fra gli eletti o fra i dannati, era la causa di quella ambizione al successo che collegava insieme con assoluta razionalità l’impegno e il risultato. In Lucania non vi era alcun rapporto razionale fra gli sforzi del singolo e il loro risultato. La razionalità si riferiva piuttosto a quella sfera arcaico-cosmica, a quei principi originali a cui Pitagora e Empedocle avevano cantato. In America la «dignità» dell’uomo era determinata dal riconoscimento sociale nel senso del successo materiale; in Lucania l’uomo aveva dignità in quanto parte di una cultura arcaica che rispecchiava i lineamenti del cosmo. Naturalmente l’America era anche il paese del «Social Gospel» (Vangelo sociale), che cercava di riformare per via legale il primato social-darwinistico del successo nel senso della giustizia sociale. Così erano sorti il «New Deal» e più tardi il piano Marshall. Anche il mondo dei contadini meridionali avrebbe dovuto essere riformato dall’America, sulla base di un armamentario concettuale anglosassone, accoppiato a buona volontà e alla fiducia della iniziativa propria degli interessati. Ma ciò che colpisce è che sia agli americani, sia ai funzionari di governo come ai ricercatori indipendenti, sia agli uomini del Mezzogiorno, faceva difetto una coscienza dialettica della storia: l’America non possedeva, almeno nella popolazione bianca dominante, una preistoria e solo in un ristretto senso storico-spirituale, una autorità e un medioevo; già solo per queste ragioni era incapace di una coscienza dialettica, della storia. Anche in Lucania mancava questa coscienza, perché non esisteva un soggetto storico unitario: la storia era stata patita solo come una congerie di avvenimenti sconnessi, dalle invasioni di popoli stranieri all’arbitrio di dominatori stranieri. A ciò si aggiungeva il rapporto tra natura e cultura. In Toscana, in Umbria e forse ancor più a nord delle Alpi si può parlare di un paesaggio «culturale». Qui la proprietà particolare della terra si offre alla coltivazione dell’uomo, la configurazione del paesaggio favorisce il senso della sicurezza. Il poeta vede nell’ondeggiare delle messi le onde della propria anima, il campanile del villaggio si staglia in un cielo pacifico. Non così in Lucania, dove il paesaggio conserva la propria preistorica permanenza; dove l’uomo al di sopra dei flussi della malaria e di forze estranee costruiva sulle montagne il suo nido che rimaneva esposto alle febbri e all’ostilità di quella terra, ai terremoti e alla fame, all’improvvisa piena delle acque e alla maledizione della siccità. Nei primi anni ’50 c’erano ancora i «sassi» di Matera che stimolavano soprattutto l’interesse ai fotografi ed antropologi, di organizzazioni assistenziali e di commissioni parlamentari. Ivi vivevano in grotte 16.000 persone, braccianti e piccoli contadini che vi si erano istallati da epoche preistoriche. Qui negli studiosi e nei riformatori sociali il motivo della custodia delle tradizioni culturali si intrecciava al desiderio di rendere accessibile a quegli abitanti, sia pure in dosi omeopatiche, la benedizione della civiltà moderna. Così, a pochi chilometri da Matera, sorse il villaggio modello «La Martella». Colà sono oggi scomparsi, come in altri villaggi di quella zona, quei muli che una volta erano il principale strumento di produzione. In qualche stalla oggi vi è un trattore e davanti a qualche casa una automobile. I «Sassi» sono stati abbandonati: gli abitanti di una volta vivono adesso in case popolari ai margini della città che si spinge per una decina di chilometri su lungo la parte della valle, che con le sue grotte vuote e abbandonate appare come un cimitero sconsacrato. Oggi, 30 anni dopo, non v’è più né la cultura arcaica praticamente intatta, né lo zelo riformistico dello studioso proveniente dai paesi industriali «progressisti». Nel Mezzogiorno non è scomparso soltanto il contrasto fra città e campagna, il problema dominante è solo una versione particolare di un problema mondiale, precisamente del rapporto fra progresso e cultura, fra politica del potere e interessi industriali da una parte e valori umani dall’altra. Le possibilità di un confronto fra ciò che è nativo e ciò che è straniero, cresciute in modo esponenziale, hanno creato, in particolare fra la gioventù, una mentalità consumistica che fa sì che in piccole località la passeggiata serale sulla via principale si fa in auto o in motoretta, ovvero che ragazzi in età scolare si affollino intorno ai «Flipper». Fra i risultati del progresso tecnico ve ne sono taluni accettabili, altri che creano confusione. Fra i primi il fatto che dal 1951 la mortalità infantile é caduta dal 120 per mille al 20 per mille. Ovvero che i mezzi contraccettivi vengono praticati nella stessa proporzione che nelle regioni più «progredite» del paese. Una certa ambivalenza appariva chiaramente nel cameriere di Aliano che pretendeva di difendersi dal progresso come dalla causa di ogni male, ma aveva installato nel proprio locale «music-boxes» forniti di potenti altoparlanti; ovvero nel contadino che ravvisa nella caduta della moralità la responsabilità del crollo della vecchia cultura, ma adesso sta alla guida di una nuova mietitrice-trebbiatrice. A mio avviso, la spiegazione del malessere sia di ciò che si chiama cultura, sia dell’industria, della tecnologia, del «progresso» sta nella mancanza di una «cultura politica». Certo, vi sono casi di accurato restauro di monumenti e di costruzione di musei come il museo archeologico di Metaponto. Qua e là si incontrano ancora contadini che, nel loro abbigliamento, lasciano indovinare le vestigia di una civiltà arcaica. Ma, nell’insieme, manca una vivente città del vivere quotidiano. In molte masserie si vedono cumuli di immondizie, di cui nessuno sembra curarsi, ciò che fa pensare a carenza di considerazione verso di sé e verso la natura. Per non parlare della volgarità dei consumi, sia che si tratti della asportazione della sabbia dalle rive dello Jonio per lasciare spazio alla costruzione di villette a buon mercato o di alberghi privi di quiete; ovvero del chiasso di strepitanti motociclette che violano la pace del mare di Monticchio. Le cose non vanno meglio quanto al «progresso» industriale. L’unica novità positiva è costi
tuita dalle strade regionali di attraversamento e dalle strade che collegano paese a paese. Veramente non è ancora chiaro chi mai le utilizzerà, a quale commercio o traffico dovranno servire. Infatti la maggior parte delle fabbriche sono vuote o lavorano al minimo: i progetti sono risultati più ampi del necessario o eccessivamente concentrati nel solo settore chimico: alcune fabbriche non si è nemmeno terminato di costruirle, i loro scheletri di cemento armato stanno squallidamente nudi contro lo sfondo del paesaggio. La incapacità delle autorità a ottenere l’indispensabile coordinamento ovvero la cupidigia degli imprenditori di trasformare le agevolazioni i rapidi guadagni si contrappongono alla sfiducia delle popolazioni delle campagne ad organizzarsi in cooperative. In genere manca loro la sensibilità di preoccuparsi come contribuenti della spesa dello Stato e delle autorità. Il principio dominante è sempre il «personalismo» e i suoi principali strumenti sono il «legalismo» e la corruzione. «Personalismo» una volta significava mancanza di fiducia nelle proprie forze e ricerca di aiuto da parte di persone che, attraverso una scala di gerarchie relativamente stabili, fungevano da mediatori fra il livello più basso dei braccianti e quello dei re delle due Sicilie. Oggi il posto di questo sistema gerarchico-statale è stato preso da un sistema per così dire democratico e dinamico, che nelle sue forme estreme somiglia a quello della camorra. Mentre il processo di industrializzazione richiedeva integrità personale e competenza, responsabilità verso il bene comune e razionale divisione del lavoro, dominavano influenze personali la cui abilità serviva interessi particolari. Nessuno sa dire con certezza se la camorra è penetrata anche in Lucania. Anche in casi in cui i contadini arrivano a qualcosa, si suppone che essi sappiano come si fa, che essi abbiano i collegamenti giusti con le persone giuste. Certo è che il personalismo si vale del fatto che vi sono una quantità di leggi contraddittorie, cosicché si sceglie quella che serve i propri interessi, mentre si lasciano non applicate quelle che quegli interessi ostacolano. Penso, per esempio, alla legge per la costruzione di edifici antisismici e alla legge per il risanamento dei «Sassi» di Matera. In altre parole, il personalismo si serve del legalismo per combattere la legalità. Una conseguenza di questa situazione è che il contadino lucano, il quale una volta accettava con una certa dignità ciò che gli capitava, in quanto cosmicamente dato, adesso si pone di fronte alla incapacità e alla corruzione della classe dirigente con rassegnazione e cinismo. Si aggiunga che la fortuna inattesa – a parte una vincita alla lotteria – non gli viene più incontro come una volta: le vie tradizionali di fuga verso il Nord o all’estero, in Europa o in America, gli sono ormai in massima parte sbarrate. Per concludere si può dire che, contrariamente a quanto io credevo di vedere 30 anni fa e cioè una civiltà contadina tradizionale «sopravvissuta» in contrasto con il paese industriale «avanzato» dal quale provenivo, adesso, malgrado tutte le diversità, ho trovato problemi e processi analoghi. Il Mezzogiorno d’Italia presenta, come ho già detto, una particolare e forse singolare variante di un tema che ha un’importanza centrale anche per altri paesi, come la Repubblica federale tedesca e gli Stati Uniti. Si tratta dei problemi della «cultura» politica, la mediazione dialettica fra una civiltà e una tradizione, da una parte, e, dall’altra, il progresso tecnico. La cultura politica si scontra contro l’onnipotenza degli interessi politici, contro la proliferazione di sovrapposte competenze burocratiche, ma anche contro una «cultura», nel senso di una sovrastruttura estetica o di una nostalgia folcloristica. L’esame delle analogie dei problemi di sistemi e civiltà diversi implica il tentativo di superare la tendenza oggi dominante di proiettare negli altri la causa di ogni male e insieme di riacquistare iniziativa e autonomia, fiducia nelle proprie forze e responsabilità.
Da questo testo ho fatto mia questa riflessione: senza intermediazione di una cultura politica e quindi in assoluta mancanza di un senso di appartenenza ad un popolo e ad un territorio, il progresso, derivante dal consumismo a stampo americano, ha travolto la cultura tradizionale millenaria del nostro Paese, svuotando di significato l’intera esistenza delle persone, proiettandole in un individualismo condito da cinismo e rassegnazione.
L’unico modo che abbiamo per contrastare questo processo ancora in atto è far rifiorire dentro di noi il senso di appartenenza alla comunità, al nostro popolo e capire l’importanza e la necessità della politica per riprendere in mano le redini del nostro destino (sempre come popolo italiano, sia chiaro).
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