Il socialismo è un carattere degli stati nazionali o non è nulla
di Stefano D'Andrea
Prendendo spunto dal caso Pomigliano, Luciano Gallino ha scritto recentemente su Repubblica: “La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s’intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello”.
Ebbene, i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti non li possono cambiare né i nostri analisti, né gli industriali (nostri o stranieri), né i nostri politici. Gli agenti del cambiamento possono essere soltanto i lavoratori e i politici stranieri. Né possiamo fingere di ignorare che il passaggio che avvenisse, in uno stato straniero “in via di sviluppo”, da un regime di lavoro “da sole a sole” in cambio del mero sostentamento per la famiglia dell’operaio ad un regime di “dieci ore al giorno” per sei giorni a settimana, con salario dignitoso in relazione al basso costo della vita, potrebbe essere vissuto dagli operai di quello Stato come un evento epocale, che potrebbe soddisfarli per un paio di decenni. Quanto tempo sono durate le lotte operaie in Europa, per giungere allo Statuto dei lavoratori e ad altre leggi analoghe? Per quale ragione le lotte operaie in Cina, Messico, India o Tailandia dovrebbero avere una storia più breve? E se, almeno in alcuni stati, la storia fosse più lenta? E se, comunque, in linea di principio, fosse necessario oltre un secolo, come lo è stato in Europa?
Al contrario la discesa di livello di salari e condizioni di lavoro degli operai italiani è, come riconosce il medesimo Gallino, una conseguenza necessaria della globalizzazione – ossia, mi sento di precisare, della distruzione dei singoli ordinamenti giuridico-economici statali sovrani e della contestuale costituzione di un ordinamento giuridico globale, tramite cessione di sovranità da parte degli ordinamenti giuridici statali o, meglio, mediante “spontanea” omogeneizzazione di rilevanti profili degli ordini giuridico-economici statali. Una volta stabilito che il capitale può circolare liberamente e delocalizzare, la Fiat ha la possibilità di ricattare gli operai di Pomigliano; punto e basta. Una possibilità che in caso contrario non avrebbe; punto e basta. Una volta stabilito che gli Stati europei non possono aiutare imprese pubbliche o private ma nazionali (il divieto di aiuti di stato), la politica perde uno strumento per impedire la delocalizzazione del capitale italiano nella misura in cui l’ordinamento giuridico statale consenta quella delocalizzazione; e perde la possibilità di proteggere capitale e lavoro italiani dalla concorrenza di imprese che producono in stati in cui il lavoro costa meno. E quando il capitale può ricattare gli operai, inseriti nella competizione globale da un politica cieca che ha perseguito la globalizzazione, il lavoro è merce – è merce punto e basta; è un fatto che può dispiacere ma le cose stanno così -, merce che, quindi, viene acquistata dal miglior offerente, ossia dai lavoratori di Stati in cui il salario è basso – in parte anche per il minor costo della vita – e le condizioni di lavoro meno gravose (per il capitale che acquista la merce).
Se questa è l’analisi, alla sinistra che non voglia perseguire un “folle socialismo imperialista” – pretendere che lo Stato Italiano, alleandosi con altre potenze occidentali, invada gli stati stranieri “in via di sviluppo”, almeno per instaurare in essi un regime giuridico di tutela del lavoro che sconsigli al capitale di delocalizzare – resta soltanto la strada dello stato-sociale (welfare state), che era uno Stato nazionale sociale, appunto, e non uno Stato mondiale (un megastato sociale). Propugnare la sovranità nazionale; vietare la libera circolazione del capitale o comunque sottoporla a rigoroso controllo, proteggere alcuni beni e servizi prodotti in Italia. Questa deve essere la prospettiva dei comunisti e dei socialisti e in generale dei ceti popolari.
Domandiamo. Negli anni in cui veniva costruito lo stato sociale italiano, l’ordinamento giuridico italiano prevedeva la libera circolazione dei capitali? No. Prevedeva la libera circolazione delle merci? Prevedeva la libera circolazione dei lavoratori? No. Conteneva norme che imponevano dazi e barriere all’ingresso delle merci? Si. Prevedeva aiuti di stato? Si. Consentiva o imponeva monopoli pubblici? Si. Imponeva la concorrenza? No. Prevedeva una moneta nazionale e una banca centrale (al 95%) pubblica? Si. concedeva la possibilità di svalutare la moneta per rendere più competitivo il sistema produttivo? Si. Tutte queste condizioni – che sono condizioni dello Stato sociale, anche se ciò non è chiaro nemmeno a illustri economisti – sono in gran parte venute meno. E gli ordinamenti giuridici europei che, sia pure con diversità di istituti e di graduazioni, hanno costruito lo Stato sociale, negli anni in cui lo costruivano, prevedevano limiti alla circolazione dei capitali, delle merci e del lavoro, la possibilità di monopoli pubblici e privati e una moneta nazionale? Pur non conoscendo i necessari dati normativi, credo che la risposta sia positiva.
Sembrerebbe, dunque che esista un nesso storico e logico inscindibile tra sovranità nazionale e carattere sociale o addirittura socialista di un ordinamento giuridico.
Chi attende che le riforme necessarie per tutelare il lavoro degli italiani vengano realizzate al livello mondiale è un imbecille. Chi attende che vengano realizzate al livello europeo ignora o finge di ignorare che tutti gli istituti che consentivano lo stato sociale italiano sono stati smantellati dall’Europa. L’Europa è libera circolazione delle merci, dei capitali e del lavoro; cessione di sovranità da parte degli Stati; divieto di aiuti di stato; perdita della moneta nazionale e della possibilità d svalutare; terrore dell’inflazione; concorrenza e divieto dei monopoli; patto di stabilità e niente altro. L’Europa – quella che esiste, ossia il cosiddetto ordinamento giuridico europeo, non quella desiderata, che non esiste e che ancora taluni favoleggiano e addirittura invocano senza precisare che per edificarla servirebbero minimo altri trenta anni – è intrinsecamente e geneticamente antisociale e non potrebbe essere diversamente, perché essa è fondata sulle regole opposte a quelle che hanno consentito la costruzione dello Stato sociale europeo.
Eppure l’idiosincrasia della sinistra per il concetto di Stato nazione è tale che essa da anni sostiene tesi incoerenti e, alla fine, come i fatti stanno a dimostrare, suicide. Un tempo avevamo il Partito social democratico Italiano, il Partito socialista Italiano e il Partito comunista Italiano. E quei partiti, assieme alla Democrazia Cristiana, hanno costruito lo Stato sociale, sviluppando in parte principi già affermati dal Fascismo Italiano. Oggi abbiamo la “Sinistra Europea”, quelli che vogliono “globalizzare i diritti” (presuntuosi che non si accorgono che essi stanno perdendo i diritti che avevano), i new global, che hanno rifiutato l’iniziale formula no global, i teorici della inesistente moltitudine e dell’impero diffuso, quelli che ci dicono che Marx è tornato, perché in Cina cominciano le lotte operaie (e noi dovremmo restare ad aspettare l’evoluzione di quelle lotte!), quelli che invocano una Europa che non esiste. Teorici senza l’analisi concreta della situazione concreta, sognatori, illusi, ingenui, stupidi e radical chic. Questa sinistra è fortemente antipopolare, gravemente antisocialista, singolarmente attratta dagli Stati Uniti che dovrebbe osteggiare.
Per quale ragione abbiamo dovuto far morire la maggior parte delle aziende che componevano il distretto tessile di Prato? Uno scambio “emersione del sommerso dietro protezionismo” non era pensabile? E’ meglio che i cittadini italiani comprino a debito (posto che cominciano a perdere lavoro, a veder ridotti salario e pensione, e a dover acquistare servizi un tempo forniti dal welfare state) le merci prodotte all’estero, magari da capitale italiano libero di circolare in modo che possa valorizzarsi al meglio?
Per quale ragione uno che si dice comunista o socialista ammette che il plusvalore estratto dal lavoro di lavoratori italiani anziché dover essere reinvestito in Italia (con tutto ciò che segue in termini di occupazione, imposizione, servizi pubblici) possa liberamente essere investito in altro stato? Vi sembra ammissibile che il plusvalore ricavato dalle piantagioni sudafricane, pagando ai lavoratori due euro al giorno, possa essere reinvestito nelle borse statunitensi o inglesi? Se siete favorevoli alla libera circolazione del capitale, delle merci e del lavoro non siete né comunisti né socialisti: siete filocapitalisti oppure ingenui. Se siete contrari alla libera circolazione del capitale, delle merci e dei lavoratori allora forse siete socialisti. Tutto il socialismo che abbiamo conosciuto fino ad ora, di qualsiasi genere e specie, è stato realizzato all’interno di Stati nazionali, tra l’altro, spesso, di dimensioni non grandissime. Il resto sono sogni, stupidità, illusioni e menzogne.
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Condivido al cento per cento questo articolo. Mi permetto però di aggiungere due elementi:
1) L'esistenza dello Stato Nazionale non è solo un requisito del socialismo, ma della stessa democrazia, intesa come capacità reale di controllare i fenomeni economici
2) Se il protezionismo in alcuni momenti è indispensabile, non dimentichiamo la forma più efficiente di protezionismo, cioè la possibilità di svalutare la moneta nazionale. Svalutare la moneta non è per sé un successo: si svaluta la ricchezza prodotta in un paese rispetto a quella prodotta all'estero. Ma il centro è proprio questo: svalutando la moneta nazionale si svaluta il lavoro E ANCHE IL CAPITALE. Non si permette cioè al capitale di separare i propri destini da quello del lavoro, come succede quando, dotato di una moneta di riserva stabile, il capitale scarica le proprie crisi sul solo lavoro.
Caro Alessandro,
sul punto 1) concordo pienamente. Ho trattato il tema ni "L'assoluta omogeneità delle due coalizioni…." che potrai trovare tra gli "Articoli più letti".
Concordo anche sul punto 2) , anche se, da non economista, mi verrebbe da fare dei distinguo o meglio sorgono alcuni interrogativi ai quali, magari, tu saprai rispondermi.
Esempi:
1) se la moneta si svaluta del 30% il valore degli immobili, in moneta nazionale, sale del 30% o di meno? In parte il costo degli immobili dipende dall'acquisto di materiale "straniero", che costerà di più; in parte no: da materiali nazionali, imposte nazionali e lavoro nazionale che costeranno come prima o di più ma non necessariamente del 30%. Se l'aumento degli immobili, in valuta nazionale, è inferiore all'inflazione dovrebbe esserci un vantaggio per il lavoro. In ogni caso se i proprietari vogliono vendere dovranno tener conto che con la svalutazione è diminuita la domanda complessiva e quindi dovranno accontentarsi di minori prezzi di acquisto.
2) c'è differenza di effetti tra uno stato che ha da esportare e comunemente esporta e uno che non esporta. Credo di si. Gli effetti negativi troveranno un compenso nelle esportazioni o, nel secondo caso, no.
3) c'è differenza tra uno stato che deve acquistare materie prime rispetto a uno che non deve o deve in misura minore? Quest'ultimo dovrebbe essere svantaggiato.
Sapresti indicarmi delle pagine dove i possibili effetti della svalutazione di una moneta nazionale sono analizzati con riguardo alle diverse ipotesi?
Siccome starò lontano dal pc un pò di giorni, se per caso mi risponderai con delle domande (come le mie) dovrai attendere per un pò di giorni le risposte.
Ciao
(Non sono d’accordo):
NAZIONALITA’, SOCIALISMO E GLOBALIZZAZIONE
Gli stati nazionali sono, (mi concedo una drastica schematizzazione utile al presente discorso), un’invenzione del primo capitalismo. Del capitalismo mercantile, cioè del capitalismo che stava iniziando la sua potente opera di globalizzazione. Questo vale essenzialmente per l’Europa e ancor più per tutti i paesi il cui carattere nazionale è stato costruito a tavolino dalle potenze vincitrici dei vari conflitti che si sono succeduti negli ultimi due secoli. Diversa, ovviamente, la costituzione in nazionalità di paesi che miravano o che mirino a elevarsi dalla condizione coloniale o di dominio esterno.
Allo stesso tempo, lo sviluppo dei nuovi mercati e dei nuovi continenti costituisce la condizione stessa del suo sviluppo. Il capitalismo si pone già, fin dal suo inizio come sistema tendenzialmente universale.
A cosa servono gli stati nazionali in questa ottica ? Essi servono a realizzare un forte strumento di sostegno a questa opera di universalizzazione del sistema, sia sul piano strutturale (costruire ciò che oggi si chiama sistema paese in competizione con altri sistemi paesi), sia su quello sovrastrutturale: convincere le masse di lavoratori che il predominio nazionale costituisce la condizione della concreta possibilità di miglioramento delle proprie condizioni, a discapito di altre comunità nazionali.
Gli affari tra capitalisti, però, non potevano e non possono che intendersi, fin dall’inizio, come affari internazionali.
Ciò accade dal ‘600 all’800, quando, in contrapposizione a questa evidenza, comincia a nascere una coscienza internazionalista (lavoratori di tutto il mondo unitevi), che chiarisce il regime strumentale degli stati nazionali, utili essenzialmente ad assicurare il dominio capitalista all’interno degli stessi e la possibilità di risolvere le crisi cicliche di sovrapproduzione con le guerre scatenate tra stati e la distruzione congiunturale degli apparati produttivi che consenta di re-innescare il meccanismo di valorizzazione capitalista.
Ogni guerra di questo tipo è essenzialmente guerra contro le rispettive classi operaie e subalterne, in quanto erodono progressivamente quote di plusvalore relativo (attraverso la lotta di classe) o in quanto la loro capacità di consumo non è sufficiente a soddisfare l’offerta di beni (proprio perché il plusvalore loro estorto è eccessivo per rendere equilibrato il sistema offerta-domanda).
Un fatto quasi sempre ignorato è che la creazione di nuovi mercati e il parallelo inserimento sul palcoscenico mondiale di grandi quantità di persone nel processo di valorizzazione attraverso il trasferimento di enormi masse di lavoratori da un continente all’altro (schiavi prima e emigranti poi), risponde alla necessità di ottimizzazione della valorizzazione del fattore lavoro da una parte per consentire la valorizzazione di nuove risorse e dall’altra la costruzione di nuovi mercati di consumo.
Non vi è ancora un grande e libero mercato dei capitali, ma vi è un grande e libero mercato di persone e di lavoratori che dura, guarda caso, fino a tutti gli anni ’60 del ‘900, cioè fino a alla fine del sistema di Bretton Woods che finisce nel 1973. In questa chiave, andrebbe seriamente analizzato il ruolo delle migrazioni internazionali quale condizione storica della costruzione di un equilibrio capitalistico internazionale.
La fine della convertibilità del dollaro, innesca la fase finale del predomio del capitalismo finanziario con la sua libertà di movimento interstatale, che crea le condizioni per il decentramento e la delocalizzazione produttiva. Non si spostano più tanto persone, quanto capitali. Il progresso tecnologico e della produttività per addetto (attraverso l’incorporazione del lavoro e dell’intelligenza di intere generazioni di lavoratori nelle macchine, soprattutto con l’elettronica, l’informatica e la cibernetica) consente di poter utilizzare lavoratori di qualsiasi parte del pianeta quale fonte di riproduzione del profitto capitalistico. La competizione torna ad essere giocata sul piano del costo del lavoro, una volta data per terminata la fase di innovazione tecnologica, organizzativa e di processo (perché il suo proseguimento comporterebbe una ulteriore erosione del saggio di profitto). E dall’altra parte sul sistema astratto delle transazioni di borsa che non registrano alcun vincolo e limite.
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Negli anni ’70 dell’800 è Bismark ha inventare il primo abbozzo di stato sociale in risposta all’emergere delle contraddizioni sociali e in un ottica di potenza nazionalistica e di cooptazione delle masse tedesche all’interno di questo obiettivo di potenza.
Nel 1914, si raggiunge il livello più alto di globalizzazione della storia in termini di scambi commerciali. (Esso sarà nuovamente raggiunto solo alla metà degli anni ’50). Pur in presenza di nuovi paesi che si affacciano sul mercato mondiale, il livello della domanda globale non è sufficiente a recepire l’imponente massa di produzioni. Nello stesso anno scoppia la prima guerra mondiale. I socialisti nei diversi paesi si dividono tra interventisti e non interventisti. Nel 1917 la rivoluzione sovietica si realizza come alternativa all’interventismo, cioè come alternativa all’ottica di stati nazionali in competizione. Il nuovo governo bolscevico si ritira dalla guerra tra le potenze capitalistiche (Brest-Litvosk). Non è un caso che per un decennio, il suo territorio viene attraversato dalle armate dei Bianchi, sostenute dalle potenze occidentali, in competizione tra loro, ma unite nella guerra contro il socialismo. A capo dell’armata rossa vi è Trotszkj.
Al biennio rosso in Italia, con l’occupazione della FIAT e la disponibilità di Agnelli a farla diventare una fabbrica autogestita, succede nel ’21 l’avvento del Fascismo, come sistema che riafferma una politica corporativa di potenza nazionale e di introduzione di elementi di stato sociale (oltre che di nazionalizzazioni), che possano soddisfare piccola borghesia e proletariato ed allentare le rivendicazioni operaie e contadine.
Negli anni ’30 in Germania, Hitler chiama esplicitamente Nazional-Socialismo il suo movimento. Il nazismo è la risposta alle contraddizioni di classe ed afferma la possibilità che esso possa essere realizzato all’interno dei confini, solo per i tedeschi, e in guerra perpetua di conquista verso l’esterno, le razze inferiori.
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La 2° guerra mondiale altro non è che il conflitto risolutivo tra potenze in competizione tra loro e a difesa ed affermazione dei rispettivi capitalismi e borghesie nazionali.
La guerra fredda, che succede ad essa, può essere letta come lotta di imperialismi, ma anche come lotta di sistemi che vedono l’unica opportunità della loro affermazione su uno scenario globale. O si vince nel globale oppure si perde.
La guerra fredda segna il superamento storico definitivo degli approcci nazionali nella risoluzione dei conflitti di classe innescati dal capitale. E parallelamente registra la nascita del movimento dei paesi non allineati e dell’affermazione dell’autonomia della Francia. Le navi piene di dollari che De Goulle chiedeva venissero convertite in oro, determina la fine della convertibilità dollaro-oro e l’opzione capitalistica verso la globalizzazione americana e anglosassone come tentativo di riaffermazione del proprio sistema multinazionale giocato in primis contro le stesse masse USA. Gli USA si concepiscono sempre più come paese globale, non nazionale, cioè come esperimento parziale del proprio impero dispiegato sul pianeta. (Quale logica ha, altrimenti, la deregulation globale che fa ascendere la povertà assoluta entro i propri confini, a oltre il 20%, prima della crisi e ad quasi il 40% dopo ?)
La globalizzazione finanziaria e la delocalizzazione del sistema produttivo americano è la risposta lampante che il capitalismo si afferma ormai al di fuori e in autonomia dai sistemi paesi intesi come sistemi di welfare superiore, restando intatta solo la funzione statale di gendarme militare e milizia privata dal capitale USA, che deve preservarne e difenderne la superiorità.
Il sistema di competizione globale prescinde ormai dalla supposta superiorità del sistema paese. Il quale vede infatti invertito in pochi decenni il rapporto nella bilancia dei pagamenti e nella bilancia commerciale con l’estero.
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Lo scontro di classe è quindi globale, planetario e prescinde tendenzialmente dalle dinamiche tra paesi e tra i sistemi nazionali. In questo le dinamiche capitalistiche assumono una “purezza” che raramente hanno avuto in passato.
Ma siccome la purezza assoluta vi è solo nell’iperuranio, diamo per scontato che nel prossimo futuro la lotta di classe mondiale può connotarsi ancora in modo imperfetto, ove le aree e i poli continentali (ma molto difficilmente i paesi, a condizione che non siano paesi-continenti come Cina, India o Brasile) possono rappresentare differenti chances di soluzione dei conflitti, più o meno avanzati.
Allo stesso tempo è quasi naturale che riprendano fiato visioni localistiche ove i cosiddetti territori assumono nuova legittimità attoriale. Quest’ultima ottica, autonomistica o secessionistica, è solo una accentuazione patologica dell’illusione di poter risolvere le enormi contraddizioni a livello nazionale, il quale viene vissuto come insufficiente. Ma la risposta localistica è ovviamente ancora più assurda.
Basterebbe pensare ad un concetto di territorio meno antiquato e primitivo, che compendi per esempio, oltre alla terra, anche l’aria e l’acqua, cioè il clima, per comprendere che i territori non esistono neanche nella loro presunta fisicità indipendente dal contesto globale.
Ancor meno è oggettivamente fondata una loro identità.
Il territorio sarebbe invece utile per avviare una nuova stagione di lotte fondate sulla coscienza che la globalizzazione neoliberale ha bisogno dei territori (tutti) per dislocare la propria efficacia, il proprio potere unilaterale, al di là dell’appartenenza dei singoli territori a sistemi nazionali o sistemi giuridici o a macroaree continentali. Se si parte da questa coscienza, la battaglia dei e sui territori si deve sviluppare come resistenza continua e implacabile a tutti i meccanismi e provvedimenti finalizzati al suo utilizzo strumentale nell’ottica del capitale globale. Ad esempio, la lotta su Pomigliano: essa deve mirare, come giustamente sta facendo la FIOM, a manifestare la natura di spoliazione territoriale di ogni diritto per compiacere le leggi della competizione globale. La proliferazione di queste lotte dovrebbe essere incentivata ovunque e compendiare e tenere insieme quelle sociali e quelle ambientali.
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Una lotta globalizzata dei territori e sui territori deve quindi essere collegata e finalizzata alla ricostruzione di una tessuto di classe internazionale. Ci sono i mezzi, le tecnologie, le intelligenze, in ogni paese.
Questa è la sfida vera, con cui tutti dovremmo fare i conti. Tenendo presente che questa guerra (necessariamente lunga) può e deve vedere momenti di battaglia tattica che possono compendiare la difesa dei sistemi di welfare o dei sistemi giuridici dei singoli paesi ed aree nazionali. Ma si tratta di battaglie tattiche, peraltro molto rischiose e da approcciare con grande attenzione e lungimiranza, come dimostra il pericolo di ruzzolare sull’antica china dei socialismi nazionali, che hanno fondamento solo sul piano sovrastrutturale del capitalismo in declino, come un nuovo dispositivo di contenimento della lotta di classe mondiale e il suo spostamento verso meta- obiettivi di competizione neocorporativa tra sistemi il cui esito può essere solo una nuova guerra mondiale.
Rodolfo
Caro Rodolfo,
la discussione mi interessa. Starò lontano dal pc un pò di giorni. Perciò avrai la risposta nel finesettimana o addirittura all'iniazio della settimana successiva.
Ciao e grazie per il commento (quando torno lo pulirò di quella strana serie di parole che non so che origine abbiano)
Sono d'accordo con Rodolfo al 100%. Ci tengo a puntualizzare che la "guerra fredda" in realtà è stata un conflitto fra due imperialismi di medesima natura (entrambi capitalistici) e non scontro fra sistemi. Non sono mai esistiti "socialismi nazionali". Gli Stati Socialisti del XX secolo altro non furono che un falso ideologico.
@ Rodolfo e Max
E' evidente che il dissenso tra noi è totale. E questo è incredibile, perché sono certo che tutti e tre non troviamo difficoltà a dirci socialisti e certamente almeno un nucleo dei valori che racchiudiamo in quella parola è comune.
Tra i tanti profili ne scelgo due strettamente connessi.
"Una lotta globalizzata dei territori e sui territori deve quindi essere collegata e finalizzata alla ricostruzione di una tessuto di classe internazionale".
Voi su quale territorio lottereste? Su quello Italiano? Bene e allora potremmo stare fianco a fianco. Per muovervi avete bisogno che accada qualche cosa in qualche altra parte del mondo? Io no. E d'altra parte, avete la presunzione (scusate ma la parola giusta è proprio questa) di credere di essre in grado di fornire un aiuto ad altri che si trova a migliaia di chilometri ad organizzare le lotte? Avete tante energie da poterne sottrarre almeno un pò alla lotta sul vostro territorio per dedicarla alla lotta in altri territori. Beati voi! Io ho quaranta anni ed ho famiglia e per combattere la lotta in altri territori non ho né la forza né il tempo, né la voglia, posto che per me la volontà è azione e già trovo difficile agire con una incidenza minima sul mio territorio.
Se, poi, la battaglia sui territori nazionali è soltanto tattica, la strategia quale è? Giungere a una "legge" internazionale che valga in tutto il globo? Non vi fa paura l'apparato coercitivo che dovrebbe farla applicare ed esercitare la giurisdizione? Se non siete anarchici, e non credo che lo siate, il socialismo si realizzerà, in tutto o in parte, attraverso leggi (su capitale e lavoro: orari di lavoro, disciplina dei marchi della pubblicità delle rendite immobiliari, e così via). Non vi fa orrore l'idea di un'unica legge (socialistica) internazionale? Non vi sembra poco credibile? Non vi appare un non senso sotto il profilo logico? Non credete che le diversità culturali, storiche, religiose, linguistiche debbano essere rispettate almeno fino al punto da escludere in llinea di principio che possa essere giusta e fattibile una legge gllobale?
Io mi sono andato convincendo, anche per ragioni pratico-logiche, come quelle che vi ho indicato, che uno stato nazionale può essere (più o meno) socialista; mentre il globo, ossia lo spazio aperto senza frontiere (per capitali e merci; per il lavoro quando si vuole le frontiere esistono!) non può che coincidere con il mercato, il capitalismo selvaggio e l'imperialismo.
P.S. I miei studi sulla globalizzazione mi indicano date (solo parzialmente) diverse da quelle di Rodolfo. E' certo, comunque, che con e dopo la crisi del 1929 la globalizzazione (l'incidenza sul pil del commercio internazionale) si arrestò e soltanto dopo molti anni e molto di recente si raggiunse lo stesso livello. Dunque il processo non è lineare ma circolare. Gli anni in cui fu limitato il commercio internazionale sono gli anni in cui sulla terra è stato realizzato, in qualche modo, il socialismo: lo stato sociale europeo; le socialdemocrazie europee; i nazionalsocialismi; il socialismo dei paesi dell'est; e Cuba. L'imperialismo terribile del nazionalsocialismo non è una ragione per abbandonare la prospettiva statale, che è l'unica via percorribile (con una maggior tutela degli specifici luoghi che compongono il territorio dello Stato, rispetto alle precedenti esperienze: mercati addirittura locali, oltre il mercato nazionale).
Concordo in pieno con Stefano e dissento, ovviamente, da Rodolfo. Nell'articolo, peraltro, Stefano ha correttamente ricordato alcune caratteristiche fondamentali proprie dello Stato italiano –e di altri stati europei– durante la fase di "ascesa" del welfare state nel Novecento. Quindi l'analisi empirica corrobora le tesi di Stefano.
L'Europa (zona Euro) potrebbe fare al caso nostro solo se diventasse uno Stato, ma ciò è improbabile (e non credo sia difficile da vedere dato che la semplice cronaca quotidiana ce lo dimostra).
Saluti,
Federico
Se siete contro il governo perche’ ritenuto liberale, allora aderite alla teoria economica di Marx o come minimo a Keynes. Benissimo. Mi piace il rigore nella costruzione del partito. Ho qualche perplessita’ sulla premura di presentarvi alle elezioni nazionali senza passare prima dai comuni e ancor piu’ senza considerare l appoggio ai 5s in funzione anti-destra. Mi piacerebbe conoscere la vostra opinione al riguardo.
Per un partito nuovo, l’appoggio a un partito esistente non ha senso. Un partito nuovo nasce dalla insufficienza dei vecchi e si fonda sempre sull’idea che le distinzioni tra i partiti esistenti siano minime e comunque non sufficienti a dare fiducia a uno o l’altro. Il M5S stava contro il PD e contro il PDmenoelle. E la lega quando nacque stava contro tutti.
Ciò è sensato e corrisponde alla logica inesorabile.
In alcuni Comuni ci candideremo, in due ci siamo già candidati, ma non val la pena fare liste che non siano di valore, tanto per far apparire il simbolo. Solo dove abbiamo un cospicuo numero di militanti ci candidiamo.
Invece nelle regionali tentiamo di candidarci. Nel Lazio e in Trentino ci siamo candidati.