L'esercito delle mille camicie rosse
di Maria R. Calderoni Liberazione (titolo originario: "Il romanzo dei mille"); a seguire Camicie rosse, cantata da Fiorella Mannoia
Quel piccolo esercito di operai e artigiani, colto e battagliero.
Il libro di Claudio Fracassi "Il romanzo dei Millle"
Centosessantatré venivano dalla provincia di Bergamo, più di un centinaio erano i sudditi borbonici, provenienti in maggioranza dalla Sicilia, dalla Calabria, dal Napoletano, sessantadue i milanesi, cinquantanove i bresciani, cinquantotto i pavesi, trentacinque livornesi erano partiti da Genova e altri settantasette, dopo aver tentato di raggiungere Garibaldi in un porto toscano, si sarebbero uniti poi alla spedizione in Sicilia. La metà dei volontari lavoravano come "operai di città" o artigiani, solo uno si dichiarò "contadino". Molti erano studenti, cento medici, più di duecento avvocati, insegnanti e professionisti, tre preti, una decina artisti, pittori scultori. Dirà uno dei più importanti storici inglesi del Novecento, G. M. Trevelyan: «Quel piccolo esercito fu uno dei più colti che la storia ricordi».
Si tratta dei Mille, naturalmente, e i numeri di cui sopra sono soltanto una delle infinite informazioni, notizie, narrazioni che si possono ritrovare in questo volume di Cludio Fracassi da poco in libreria – "Il romanzo dei Mille", Mursia, pag. 405, euro 19 – che un romanzo non è, ma come tale si legge. Con un'emozione e un interesse che restano vivi dal primo all'ultimo capitolo.
I Mille raccontati giorno per giorno, anche ora per ora, come visti e vissuti in prima persona, dal vero, grazie a un enorme lavoro di ricerca tra cronaca e storia. Un film d'epoca ricostruito con rigore e passione, anima e fatti. Un bel film.
15 maggio 1860, sulla strada per Calatafimi, verso il primo scontro. «Il segnale ai volontari fu dato da una tromba, con un'aria fatta di note lievi e carezzevoli, che avevano poco di marziale». Sì, quella tromba suonava quello che sarebbe diventato l'Inno nazionale, «scritto nel 1848 da un ragazzo genovese di diciannove anni, Goffredo Mameli, un anno prima di morire di cancrena dopo essere stato ferito sugli spalti del Gianicolo». Sì, con quelle note gentili e quelle parole da poeta più che da soldato, i Mille si avviavano alla loro prima e sanguinosa battaglia; sotto i cannoni del generale Landi e nei corpo a corpo con la baionetta morirono in 32, 182 i feriti. Colpito anche il livornese Giovanni Bandi, uno degli aiutanti di campo di Garibaldi che, nel raccontare in seguito quei momenti, scrive che, vicino a lui, era caduto ferito anche un soldato borbonico, «era un ragazzo di Nola, aveva ventun anni. Forse stava per morire. Ripeteva:"Signor piemontese, salvatemi"»…
Ad ingrossare le file dei garibaldini, una volta toccata la Sicilia, arrivano a frotte i contadini dei villaggi. Da Alcamo, da Vita, da Monte San Giuliano, «ignari del mestiere di soldato e malissimo armati» e quasi tutti hanno meno di vent'anni. Sono i "picciotti", «organizzati, secondo la tradizione, in squadre, «vestivano in genere pelli di pecora non conciate» ed erano «molto curiosi dei revolver a tamburo». In uno degli episodi riportati, Fracassi racconta di quel «gruppo di sconosciuti che, colle papaline in testa e coi fucili attraverso la sella», viene giù dalla collina e raggiunge l'avanguardia della truppa. Uno di loro «scese da cavallo e salutò gridando:"Viva l'Italia, viva Garibaldi!". Era il barone Santanna di Alcamo, un patriota siciliano che si era unito alle formazioni di Rosalino Pilo. «Dietro di lui, al galoppo, arrivarono gli altri otto, ripetendo con urla assordanti: "Viva Cecilia! Viva La Taglia!».
In marcia verso Salemi, quegli autentici pazzi dei Mille – detti anche garibaldesi – camminavano su due file parallele, lungo il ciglio della strada. Solo Garibaldi e le guide, incaricate di esplorare il terreno, stavano a cavallo. «Salemi era distante trentacinque chilometri. Il sole pioveva addosso ai marciatori. Si spensero pian piano i discorsi, si udivano soltanto le sonagliere dei carrettini siciliani, pieni di immagini sacre, su cui erano stati caricati i cannoni. Due carrozze trasportavano i malati. Più dietro venivano le munizioni e le salmerie, penosamente scarse».
Un piccolo, malconcio e esercito. Eppure i Mille sono subito famosi in tutta Europa e nell'intera opinione pubblica mondiale. «A San Pietroburgo, la rivista Illustratsia annota: "Nessuno degli ultimissimi avvenimenti ha sollevato così tanta curiosità come la spedizione di Garibaldi"». Il francese
L'Illustration decide di spedire in Sicilia, da Tolone, due inviati: un cronista e un illustratore; l'inglese Daily News vi dedica più di una corrispondenza.
Non solo corpo a corpo e vecchi mortai. Già ad Alcamo Garibaldi – che a Salemi «in nome del re » ha assunto la carica di "dittatore" (cioé i pieni poteri sia civili che militari, ovviamente in via del tutto provvisoria) – si preoccupa di riorganizzare il territorio anche sotto il profilo amministrativo e sociale, nominando con apposito decreto Nino Bixio segretario di Stato. Con l'obiettivo di «demolire rapidamente l'organizzazione borbonica, ricostruire nello stesso tempo uno Stato nuovo, risanare le ferite di un sistema dispotico, sostituendovi un regime di libertà». Un governatore è nominato per ciascuno dei 24 distretti in cui è suddivisa la Sicilia, il cui compito immediato è di ristabilire i Consigli civici che erano stati destituiti dai Borboni nel 1849 e di formare un nuovo apparato di pubblica sicurezza.
Quel "dittatore" in camicia rossa emana anche nuovi decreti. Il primo – firmato ad Alcamo quando la situazione militare è ancora tutta aperta – abolisce infatti l'odiata tassa sul macinato, «la tassa sui poveri», che fruttava all'amministrazione borbonica oltre due milioni di ducati l'anno, in pratica la metà dei suoi introiti complessivi.
A Partinico – che è purtroppo anche teatro di stragi e vendette antiborboniche da parte della popolazione -a Garibaldi viene offerta la cittadinanza onoraria e si sparge persino la voce di una sua parentela con Santa Rosalia, che «da ragazza faceva Sinibaldi di casato, molto simile nella pronuncia al Garibaldi arrivato a liberare la Sicilia».
I picciotti di Rosalino Pilo e la truppa di Garibaldi stanno finalmente per incontrarsi, era la mattina di lunedì 21 maggio. «Seduto tra le rocce del Pizzo della Neviera, sopra San Martino, Rosalino Pilo scrisse un biglietto a Garibaldi, per chiedere soccorso. Vicino a lui erano Salvatore Calvino, Carlo Tasselli, Nicola Rammacca e Andrea Soldano, sulle cui spalle il comandante aveva appoggiato la carta per scrivere quelle poche righe. I borbonici erano schierati su un'altura di fronte, il Giardinello. Da lì partì il colpo di fucile che lo uccise, penetrandogli nella tempia sinistra». Figlio del conte di Capaci, una vita di militanza mazziniana -dalle insurrezioni del 1848 alla disperata spedizione di Carlo Pisacane -quando muore lì al Giardinello Rosalino non ha ancora quarant'anni.
Meno di due settimane dopo, i garibaldini entrano a Palermo. «Al Ponte dell'Ammiraglio – scrisse nel suo diario uno dei garibaldini – trovammo una resistenza quasi feroce…Cadde Benedetto Cairoli, ferito gravemente. Fu colpito il fratello più giovane, Enrico, che lo seguiva…».
Palermo conquistata. Il "filibustiere" ha vinto, il suo quartier generale è istallato dentro Palazzo Reale, la sua "avventura" scuote l'Europa. Sono con lui il duca di Wellington e Charles Dickens, Darwin e Florence Nightingale (l'inventrice del mestiere di infermiera professionale); il popolare Illustrated London News definisce la spedizione «un portento»; il paludato Times parla di Garibaldi come di «un uomo che combatte per l'umanità»; e Alexandre Dumas invia ogni giorno al Siecle le sue corrispondenze. Dalla sua parte pure George Sand, Marx ed Engels, mentre Victor Hugo, esule a Londra, in un appassionato discorso lo esalta come «l'uomo che ha in sé l'anima dei popoli».
Era scoppiata la "febbre garibaldina".
Fiorella Mannoia Camicie Rosse http://www.youtube.com/watch?v=-XawmwigMYg&feature=fvw
Commenti recenti