La nazione italiana (2a parte)
di GIAMPIERO MARANO (FSI Varese)
Un aspetto spesso tralasciato consiste nel carattere sacrale del potere politico romano: Romolo, il fondatore, è in realtà un re-sacerdote che traccia il perimetro della città con un aratro, come era consuetudine in Italia quando venivano delimitate aree sacre, e l’imperatore diventa anche la massima autorità religiosa da quando Augusto trasferisce nella propria residenza sul Palatino la sede ufficiale del pontificato, dove rimarrà per quattro secoli: il giudizio di Simone Weil su Roma è ingiusto, soprattutto quando la accusa di non riuscire a concepire la vita spirituale. Per il cristiano Dante l’impero romano non si fonda sulla violenza, come pensava invece Agostino, ma sul diritto e ha un carattere provvidenziale che gli viene riconosciuto anche fuori dall’Occidente (per esempio nel Corano, XXX, 2-5).
L’Italia preromana è un mosaico di etnie, lingue, nazionalità differenti anche se strettamente legate fra loro per lingua e cultura: a sud e nelle isole Greci, Fenici, Osco-Umbri, Apuli; Etruschi, Latini e ancora Osco-Umbri nell’Italia centrale; Liguri, Celti (o Galli) e Veneti a nord. I Fenici, gli Etruschi e forse i Liguri non sono neppure indoeuropei; i Galli, i Latini e gli Osco-Umbri appartengono a tre distinti ceppi indoeuropei. È, in fondo, la fiera e variegata Italia arcaica rievocata da Virgilio nel catalogo dei popoli (fra cui i Volsci guidati da Camilla, la vergine guerriera) che sostengono Turno nella guerra contro i Troiani: “Rimbombano gli scudi e la terra trema sotto i loro piedi”. Virgilio concepisce il popolo romano come il prodotto di una serie di ibridazioni, la prima e forse principale delle quali consiste nella fusione fra gli orientali e ipercivilizzati Troiani e i rozzi Italici: Roma nasce all’insegna del “giusto equilibrio” fra communitas e immunitas a cui si ispira anche il complesso lavoro politico e istituzionale che le permette di unificare l’Italia senza cancellare le specificità delle singole genti.
Come osserva Umberto Laffi, dal I secolo a. C. e per tutta l’età imperiale l’Italia risultava suddivisa in più di quattrocento comunità autonome (municipia, coloniae, praefecturae) con propri organi di governo: era “un’Italia di piccole patrie, che poterono e seppero conservare tenaci tradizioni di libertà”, una macrocomunità di piccole realtà locali animate da uno spirito di emulazione reciproca che esplode spesso distruttivamente quando, durante i quattordici secoli di interregno che vanno dal crollo dell’Impero d’Occidente alla proclamazione dell’Unità, viene a mancare nella penisola un’autorità centrale e, insieme a questa, l’indipendenza politica. Augusto, padre dell’Italia, ne stabilisce i confini (corrispondenti grosso modo a quelli attuali) e la suddivide in undici regioni a rimarcare l’unità nella diversità, la pluralità delle culture locali di antica tradizione. Quasi tutte le regioni augustee si dispongono a est o a ovest della dorsale appenninica che Dante, rifacendosi a un passo di Lucano, paragonerà al “displuvio di un tetto da cui l’acqua gronda da una parte e dall’altra per cadere in due direzioni opposte”. L’Appennino è il simbolo della tensione e dell’equilibrio tra communitas e immunitas, tra l’Oriente adriatico e l’Occidente tirrenico, che percorrono il pensiero italiano e che sono scritti anche nella geografia, nel “corpo” dell’Italia.
Secondo Dante la lingua nazionale è il volgare illustre, alla cui ombra vivono ben quattordici dialetti regionali, senza contare le mille varianti cittadine. La lingua italiana non era parlata soltanto dai letterati e da poche persone colte: i testi dei semicolti (lettere, confessioni giudiziarie, diari, testi scritti dai briganti meridionali dopo l’Unità, ecc.), la diffusione anche presso strati popolari di testi religiosi (compresi i legendari, i vari catechismi e le prediche), di poemi cavallereschi, di romanzi in prosa (come i Reali di Francia di Andrea da Barberino, destinato a un plurisecolare successo di pubblico in tutta Italia), di testi di utilità pratica e di intrattenimento (almanacchi, ricettari, ecc.) e di manuali scolastici a uso dei ceti medio-bassi, dimostrano che ben prima dell’unificazione politica, cioè almeno a partire dal Cinquecento, esisteva una lingua d’uso, un “italiano di comunicazione” (E. Testa) parlato e scritto, modellato sul volgare illustre letterario del Duecento e del Trecento ma semplice e sostanzialmente comprensibile da tutti. Ben prima della diffusione dell’italiano standard, scolastico e televisivo, avvenuta nel secondo Novecento.
È probabile che la coscienza nazionale nascesse ancor prima del XVI secolo: secondo A. D. Smith, già nel Trecento Cola di Rienzo e Petrarca “testimoniavano l’esistenza di un sentimento di solidarietà italiana”, mentre un politico della Prima Repubblica, Giorgio Ruffolo, ha un’intuizione felice quando (forse sulle orme di Gregorovius) ravvisa una tappa fondamentale per la formazione della coscienza nazionale nell’ammutinamento delle truppe bizantine di stanza in Italia, composte in massima parte da soldati italiani, contro l’imperatore Giustiniano II, che nel 692 aveva ordinato l’arresto del Papa, il siriano Sergio I. Anche dopo la caduta dell’Impero, Roma continua a essere l’ombelico della nazione italiana: i papi sono originari di ogni angolo della penisola e intorno alla metà del Cinquecento la città è abitata prevalentemente da immigrati, provenienti in particolare dal centro-nord. Del resto, la continuità tra la storia pagana e la storia cristiana di Roma, teorizzata da Dante e destinata a un duraturo successo nella tradizione umanistica, costituisce uno dei grandi paradigmi del pensiero italiano.
Il polo spirituale rappresentato da Roma, attualmente offuscato e incapace di orientare con efficacia la vita del popolo (o di quello che ne rimane), potrà essere nuovamente vivificato da una comunità di “veggenti”, contemplatori della “non dualità tra ciò che è Dio e ciò che è di Dio” (G. De Giorgio), perché il mondo non è una valle di lacrime, un deserto nel quale siamo condannati a vagare come nomadi e schiavi. Ma insieme alla sovranità, la politica saprà anche riprendersi la sacralità perduta, sia pure nella minima misura che il nostro tempo le consentirebbe?
(fine)
Qui la prima parte dell’articolo.
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