Il postmoderno italiano (parte II)
di GIAMPIERO MARANO (FSI Varese)
Fine studioso di Rabelais, Cervantes, Beckett, Bachtin, come dimostrano i saggi teorici di Finzioni occidentali (1975), Gianni Celati pubblica nel 1978 il romanzo Lunario del paradiso (riedito diciotto anni più tardi), storia di un temerario e squattrinato ventenne che si trasferisce in Germania per amore della giovanissima Antje. Il registro prescelto è quello comico, e proprio in chiave “carnevalesca” e dissacratoria si delinea in Celati il rifiuto dellidentità nazionale tipico del postmoderno italiano, i cui riferimenti letterari sono allogeni e quelli extraletterari derivano dal rock e dal cinema (americani, ça va sans dire):
Un barbuto laggiù in sala chiede in che modo potessi sostenere l’ardita tesi che l’italiano non esiste. Ay ay ay, muy interesante pregunta! Perché non esiste l’Italia, ecco perché.
Il comico di Celati difetta però della pars construens. Manca cioè l’esplosione esuberante e gioiosa del cosmo che si rigenera dopo la Quaresima, poiché, lo vediamo nei quattro diari di viaggio nella pianura padana di Verso la foce (1989), il desiderio di mettere in discussione appartenenze consolidate sconfina in una sottile quanto insidiosa ansia da derealizzazione:
Deperibilità svelta del cosiddetto “mondo reale”, non si distingue bene da un miraggio. Per forza l’intelligenza arriva sempre in ritardo: non lo capisce proprio tutto questo passare e perdersi nell’incerto, la dimenticanza che dovunque ci avvolge e ci porta.
Se Celati precorre una strategia della narrativa degli anni Ottanta, consistente nel camuffare da trasgressione l’accettazione sostanziale dello status quo, di tale conformismo Pier Vittorio Tondelli offre il frutto maturo, la più smaccata ma anche più trasparente realizzazione. Questo ragazzo nato nella fase di transizione dall’Italia agricola a quella industriale e cresciuto con il mito dell’America, come egli stesso si ritrae, è uno scrittore piatto e prevedibile, incapace di affondi memorabili al contrario del suo “maestro” Arbasino. L’impennata e lo scatto verticale gli sono sconosciuti, è vero, ma sotto questo aspetto Tondelli non fa che esprimere con fedeltà lo spirito postmoderno.
Il pastiche plurilinguistico tondelliano non sta a segnalare perciò il trauma di un’esperienza interiore sconcertante, come in Gadda, ma la perfetta assimilazione del globalismo ideologicamente omologatore e “orizzontale” (“Se lo posso fare io un libro come questo, potete farlo anche voi”): lo stesso vale per la contaminazione dei generi, sperimentata forse più che altrove nell’ammiccante bestseller Rimini (1985). La retorica encomiastica, la celebrazione acritica dei fasti di un mondo che si pretende libero (ma, a esser franchi, dovremmo attenderci esiti diversi da uno scrittore che definisce “emotiva” la sua letteratura?) è evidente fin dai racconti di Altri libertini, con cui Tondelli esordisce nel 1980. Il percorso di formazione dei personaggi prende avvio dal ripudio drastico della dimensione nazionale; fra i casi che potremmo citare si prenda Autobahn:
Ah che due maroni questa Italia, io ci ho fame amico mio una gran fame di contrade e sentieroni, di ferraie, di binari, di laghetti, di frontiere e di autostrade, ok? Senti amico mio (…) bisogna cercare soltanto una frontiera e un limite da scavalcare, bisogna gettare le nostalgie e i retrò, anco riflussi e regressioni.
Il glocalismo di Tondelli congiunge l’Emilia dinamica e ottimista direttamente al sogno americano (e viceversa), dell’Italia sfiorando soltanto Rimini, luogo in qualche modo privilegitato perché, nell’interpretazione tendenziosa dello scrittore, la vacanza estiva costituirebbe “l’unico proseguimento, nella contemporaneità, della medievale cultura carnevalesca”. In Tondelli un cosmopolitismo ingenuo e quasi fiabesco procede all’unisono con l’attrazione per la micro-comunità, evidente nelle pagine di Camere separate (1989) in cui è descritto il ritorno del protagonista Leo nel suo paese natale, “un piccolo borgo della bassa padana” dove vivono i genitori.
L’abbandono della cultura nazionale si inserisce in una vasta opera di demolizione del principio di centralità e stanzialità (fortemente inviso all’ideologia globalista) a tutto vantaggio di marginalità nomadi cui toccano in sorte esistenze precarie consumate tra “periferie, ghetti e marciapiedi, viali lampioni e cantinette”. La voce narrante di Autobahn sembra appartenere a un personaggio di Ellis, di quelli che considerano noiosi i propri genitori perché non divorziano o che dichiarano convintamente di avere imparato più dalla musica punk che dalle poesie di Stevens e Yeats:
L’occhiocaldo mio s’innamorerà di tutti, dei freak dei beatnik e degli hippy, delle lesbiche e dei sadomaso, degli autonomi, dei cani sciolti, delle superchecche e dei filosofi, dei pubblicitari ed eroinomani e poi marchette trojette ruffiani e spacciatori, precari assistenti e supplenti, suicidi anco ed eterosessuali, cantautori et beoni, imbriachi sballati scannati bucati e forati.
Avvolta nell’aura di un’opposizione fintamente alternativa alla “testa bacata della razionalità occidentale”, infine, diventa egemone la tendenza individualista a ricercare Dio fuori dalla religione, o contro di essa, che Tondelli eredita da Kerouac e, più in generale, dalla New Age e dall’Età di Kafka. In Camere separate leggiamo che Leo ha spesso pensato di non poter vivere senza Dio mentre riesce a rinunciare volentieri a “una religione senza sesso per uomini che hanno paura delle passioni e della forza dell’amore”: un attacco frontale al Cristianesimo che già negli anni Ottanta non scandalizzava più nessuno!
Nessuna novità, allora, nessuna contestazione del potere neocapitalista: confezionato dall’industria delirante dell’entertainment nell’era di MTV e delle radio libere, il prodotto Tondelli si inserisce negli ingranaggi della megamacchina mondiale dello Spettacolo senza remore né frizioni ma anzi con l’entusiasmo dei provinciali.
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