La vita come missione: contro il diritto alla felicità e contro ogni indice di misurazione della medesima
di Stefano D’Andrea
Si va diffondendo la consapevolezza che non è possibile curare la psiche di uno o altro soggetto se il malato muove da idee errate, insensate e, diciamolo pure chiaramente, immorali. Accolte determinate idee, magari inconsapevolmente, per abitudine, adattamento, adesione ai costumi e alle prassi dominanti, non si potrà mai avere un equilibrio psichico. Una di queste idee errate, insensate e immorali è che lo scopo della vita sia di agire per raggiungere la felicità. Idea tanto più errata, insensata e immorale quanto più si aderisce al credo dominante che identifica la felicità con un alto livello di consumi. Ma anche chi non aderisca al credo dominante erra quando propone di sostituire il PIL con altri indici di misurazione della felicità e, seppure senza saperlo, finisce per non discostarsi di molto da quel credo che si propone di contrastare.
La vita non è un viaggio alla ricerca della felicità: è una missione. E questa asserzione non si pone, in prima istanza, sul piano morale; non deve essere intesa nel senso che la vita “deve essere” una missione. Che la vita sia una missione – magari svolta malissimo e con fallimenti in tutti o molti campi – è una verità che può essere constatata, svolgendo poche e indiscutibili osservazioni. Dunque, quando affermo che la vita è una missione intendo pormi sul piano del vero e del falso e non su quello, morale, del giusto e dell’ingiusto.
Con più precisione direi che la vita consiste nell’adempimento di un certo numero di importanti missioni, le quali sono talmente tante che finiscono per avvolgerla e contenerla quasi per intero.
Un primo gruppo di missioni deriva dal nostro stare in famiglia.
Si può scegliere di non avere figli. Ma una volta che i figli sono nati, voluti o meno, siamo chiamati ad adempiere la missione di padre e la missione di madre. La paternità e la maternità sono due missioni. Ogni missione si caratterizza per uno scopo e per i mezzi che lo realizzano. La pluralità delle concezioni su ciò che deve essere un uomo implica una certa relatività degli scopi. Ma si tratta di una relatività parziale, perché esiste un nucleo comune innegabile. Chi potrà negare che un genitore è chiamato ad impegnarsi perché suo figlio abbia un carattere forte e non debole? Perché sia paziente e tenace e non impaziente e velleitario? Perché comprenda l’importanza del sapere e del saper fare in uno o altro campo e non diventi un uomo senza arte né parte?
La condizione di figlio, a un certo punto della vita, diventa una missione. Giunti a una certa età, abbiamo genitori dei quali dobbiamo prenderci cura. O con i quali non dobbiamo più litigare, perché sono divenuti fragili, mentre noi siamo nel pieno della maturità e del vigore e dobbiamo saper comprendere e avere la capacità di controllarci. Figuriamoci poi quando i rapporti sono sempre stati ottimi e il genitore si trova in difficoltà.
Siamo liberi di contrarre matrimonio e siamo liberi, secondo il diritto civile, di separarci e divorziare. Ma una volta contratto matrimonio, per la coscienza sociale così come per il diritto civile, assumiamo doveri (contraiamo vincoli) nei confronti del coniuge: fedeltà, mutuo aiuto morale e materiale, collaborazione e coabitazione. Si tratta di doveri che sovente e sempre più vengono infranti. Ma questi doveri esistono, sono oggettivi, previsti dalla legge e avvertiti dalla coscienza sociale. Anche la condizione di coniuge, dunque, ci impone una missione.
Noi siamo parte anche della società civile. Lo svolgimento del nostro mestiere è una missione. Svolgiamo il mestiere di insegnante, di medico, di avvocato, di artigiano, di pubblico funzionario. Dall’acquisizione di quelle qualifiche e dallo svolgimento di quei ruoli sorgono doveri di aggiornarci e di eseguire gli incarichi con scrupolo e onestà; doveri di non abusare della posizione di potere e di non tradire la fiducia di chi ci ha conferito un incarico. La qualifica di dipendente privato pone qualche problema, in tutti i casi in cui il datore di lavoro o il superiore gerarchico non rispettino i doveri e i vincoli che la legge, prima ancora che la coscienza sociale, impone, circoscrivendo l’ambito della subordinazione. Ma è certo che in un fisiologico svolgimento del rapporto, il lavoratore subordinato è titolare di precisi doveri, di fedeltà e di correttezza, che caratterizzano la prestazione lavorativa in base ad una precisa disposizione normativa.
Nemmeno si dovrebbe dubitare che l’amicizia è una missione. Che ci vincoli ad aiutare l’amico in difficoltà, a stargli vicino nei momenti tristi della vita e prima ancora a coltivarla, a cercare l’amico, a trovare il tempo per andarlo a trovare, a liberarci dei pensieri per trascorrere con esso momenti di spensieratezza e dedicarci, assieme a lui, ai comuni vecchi vizi. Chi non coltiva l’amicizia sarà inevitabilmente senza amici. Ma anche rapporti meno caldi, come quelli di vicinato, implicano condotte che si attengano a doveri: salutare, essere gentili e disponibili. Essere un buon vicino di casa è dunque una missione. Una missione piccola e talvolta difficilissima; ma è una missione.
Anche la condizione di cittadino è una missione. Come cittadini abbiamo il dovere di votare i migliori tra i candidati che si presentano alle elezioni, amministrative o politiche, rifiutando il voto a parenti ed amici, se non sono i migliori; di non votare se reputiamo che la legge elettorale sia incostituzionale; di resistere all’oppressore, se dovessimo essere aggrediti da altri popoli; di combattere militarmente i secessionisti; di interessarci in uno o altro modo alla res pubblica; di pagare le imposte; di rispettare i mille piccoli doveri, giuridici e non solo (raccolta differenziata, pagamento del biglietto del tram, evitare, per quanto possibile, l’uso dell’automobile, ecc.) che servono a rendere più vivibile la nostra città.
Ma la missione più importante è coltivare la nostra anima, il nostro pensiero e il nostro carattere morale: coltivare il rapporto con noi stessi. Anche questa missione, come tutte le altre, si realizza attraverso l’adempimento di doveri. Il sommo dovere di accettarci; di essere contenti se scopriamo un nostro limite; di impegnarci per attenuarlo ed eventualmente il dovere di prendere atto serenamente che non siamo capaci. Il dovere di immergerci, quando possiamo, nella natura; di godere della solitudine, dei profumi e dei colori della terra, di bagnarci, anche in solitudine, nei mari limpidi, dei quali dobbiamo andare in cerca. Di nutrirci delle grandi opere di poesia e di pensiero, le quali sono in grado di influenzare in senso epico la nostra personalità.
Se consideriamo una giornata qualunque di un uomo adulto, constatiamo agevolmente che in gran parte quell’uomo compie azioni che sono adempimento di doveri: preparare i figli nel primo mattino; accompagnarli a scuola; salutare il vicino incontrato sul pianerottolo; recarsi sul luogo di lavoro; lavorare; recarsi, dopo il lavoro, nella assemblea della associazione alla quale si è iscritti; acquistare ciò che è necessario per la cena; recarci all’appuntamento con l’amico per bere una birra; dopo cena mettere a letto i figli; concederci un momento di pace con la moglie o la compagna (o il marito o il compagno); leggere pagine del libro che ci si è ripromessi di finire entro la domenica.
Non dobbiamo pensare, tuttavia, che ciò implichi un’intrinseca e ineliminabile tristezza della vita. Sarebbe un pensare stolto e molto infantile. Perché le condotte che sono adempimento di doveri – giuridici, morali o nascenti dal costume – possono essere tenute spontaneamente e volontariamente, insomma senza pensare che l’azione che si compie è dovuta. Ciò vale per un bacio alla propria moglie, per una carezza al figlio, per un rientro a notte fonda che conclude una serata dedicata ad un amico in difficoltà, pur sapendo che dopo un paio d’ore sarà necessario alzarci; per lo studio approfondito di un caso che un cliente ci ha affidato e per mille altre azioni, le quali, essendo dovute, è bene che siano sempre volute. In certo senso, quando un’azione è voluta, essa perde, nella coscienza di chi la compie, il carattere di doverosità.
Ecco che cosa è, dunque, la felicità. Un giudizio complessivo che diamo su noi stessi, sul modo in cui stiamo realizzando le nostre missioni e quindi adempiendo i nostri doveri. Giudizio complessivo, perché le missioni sono talmente tante che è quasi naturale che in una o più di esse si stia fallendo o, addirittura, che una di esse sia certamente fallita. Il giudizio complessivo sarà tanto più positivo quanto più penseremo di aver adempiuto, in linea di principio, le nostre missioni. E le avremo adempiute quando, in linea di principio, avremo voluto tenere le condotte che dovevamo tenere.
La felicità, dunque, non è l’obiettivo della vita ma un risultato, che si consegue adempiendo volontariamente doveri.
La felicità è compatibilissima con lunghi periodi di stress e anzi, forse, non può aversi senza di essi, perché le missioni sono difficili.
La felicità non implica nemmeno un’abituale serenità, perché le missioni richiedono tensione, sacrificio e scelte sovente spiacevoli.
Tanto meno la felicità implica un alto livello dei consumi. Non solo è falso che chi consuma è felice – chi consuma di volta in volta si sta divertendo o si sta appagando -; è vero piuttosto che chi è infelice tende a consumare.
La causa maggiore dei consumi è la mancata comprensione del senso della vita dovuta al fatto che non si vuol (e oggi non si viene nemmeno sollecitati a) prendere atto dei mille doveri che dobbiamo adempiere. L’angoscia provocata dalla perdita di senso dovuta al disconoscimento dei doveri e quella che sorge dal timore di non saperli adempiere, timore sovente paralizzante – si tratta delle due principali cause dell’infelicità – spingono verso l’eccesso dei consumi. In verità, quando per la prima volta a fine mese si constata che si è riusciti a vivere spendendo meno di quanto abbiamo incassato siamo felici: abbiamo adempiuto il dovere di essere previdenti e parsimoniosi, ossia di fare il nostro bene.
L’ideologia consumista è tanto diffusa e pervasiva da oscurare la verità. Ciò accade perché il becero materialismo del quale è portatrice eclissa la dimensione spirituale della nostra vita e rimuove riflessioni come quelle condotte in queste note, che nel fondo sono banali – la verità è spesso banale. Tuttavia, alla resa dei conti, la dimensione spirituale della nostra vita è tutta la nostra vita. Come dimostra il fatto che depressione, anoressia, esaurimenti nervosi, suicidi, gravi tossicodipendenze o videodipendenze, bilanci negativi della propria vita condotti in età matura non sono più frequenti tra coloro che nella vita hanno consumato meno, rispetto a coloro che nella vita hanno consumato più e soprattutto tra coloro che nella vita hanno dato poca importanza al consumo delle merci rispetto a coloro che hanno consumato in modo compulsivo.
Sbagliano, dunque, i sostenitori della Decrescita e i governi di Sarkozy e di Cameron, così come Stiglitz quando propongono di sostituire il Prodotto Interno Lordo con altri indici, che sarebbero più idonei a misurare la felicità dei membri di una comunità politica. Sbagliano, perché muovono dal presupposto errato che l’obiettivo della vita sia quello di ricercare la felicità e che la politica sia al servizio della felicità dei singoli. La loro posizione è omogenea, anche se contraria sotto un profilo secondario, a quella di coloro che legano la felicità alla produzione (eventualmente anche alla distribuzione) e al consumo di quante più merci è possibile produrre e consumare.
La posizione alternativa – la contestazione vera del pensiero dominante – muove dalla constatazione che, nella ricchezza e nella povertà, dotati di conoscenze e di cultura ovvero analfabeti o semianalfabeti, siamo chiamati ad adempiere doveri, talvolta creati dalla legge, ossia dalla politica, e talvolta da quest’ultima soltanto sanzionati con la forza, perché molti di essi “esistono” già nella coscienza sociale. E sui doveri che dobbiamo adempiere nel rapporto con noi stessi – di gran lunga i più importanti, perché incidono sulla forza che saremo in grado di esprimere nell’adempiere altri doveri e altre missioni – la legge (e quindi la politica) non dice, non deve dire e non può dire nulla.
La politica ha poco a che vedere con la felicità dei singoli cittadini.
Certamente la politica concorre a creare quelle condizioni minime senza le quali il singolo, immerso totalmente nell’impegno volto alla soddisfazione dei bisogni primari, è completamente costretto alla lotta per la sopravvivenza e non ha tempo e forza per vivere, ossia per adempiere le sue missioni.
Gli altri obiettivi della politica, anche i più nobili che è dato ipotizzare – perseguire la bellezza delle città e delle campagne; predisporre un apparato volto alla formazione (educazione) di uomini valorosi, che mantengano la parola data, coraggiosi, pazienti, colti e operosi (la politica è in primo luogo pedagogia, magari cattiva pedagogia ma è pedagogia); realizzare la giustizia, per esempio, impedendo al capitale non investito ma messo a rendita di valorizzarsi; promuovere e agevolare lo sviluppo di una cultura e di una tradizione originali ma aperte alle culture e alle tradizioni straniere; organizzare la sicurezza dei confini e la difesa militare dell’ordinamento da ingerenze esterne e da secessioni – poco o nulla hanno a che vedere con la felicità dei singoli cittadini. Come tutti gli obiettivi politici, ossia pubblici e relativi ad interessi “generali”, essi possono essere realizzati soltanto ponendo vincoli, divieti e comandi.
La politica si risolve in legislazione e quest’ultima è imposizione di vincoli, divieti e comandi. La politica è l’arte e l’attività volta ad organizzare e orientare la vita di popoli: rafforzarli e fornire durata alla vita dei medesimi; fornire i popoli di una storia e delle condizioni per avere un futuro. La politica si interessa poco ai singoli cittadini, e molto al Popolo, ossia a quell’entità mutevole (ma non astratta, bensì sempre concretissima) che c’era quando noi non eravamo nati e ci sarà quando noi non ci saremo. Ben può accadere, in certe circostanze storiche, ed è spesso accaduto, che intere generazioni debbano sacrificare la giovinezza e finanche la vita, perché le future generazioni siano libere, prospere, autonome e indipendenti. A rigore, in questi momenti, che sono i più tragici ma talvolta i più alti che la storia tramandi, sembrerebbe che la politica sia piuttosto fonte di sventure che non di felicità per i singoli. Eppure ancora una volta, tutto dipende dalla volontà. Dalla volontà di adempiere i doveri e le missioni, compresa, se è necessaria, la disponibilità all’estremo sacrificio.
Se la felicità non è un obiettivo ed è il risultato dell’adempimento dei doveri mediante i quali realizziamo le nostre missioni, a maggior ragione non può essere il contenuto di un diritto. Non è forse un caso che il tempo dell’impero statunitense è coinciso con il tempo della diffusione planetaria dell’ideologia consumistica, se è vero che lo sfortunato popolo statunitense ha inserito nella Costituzione il diritto alla felicità. Così come non è forse un caso che il popolo statunitense sia quello maggiormente colpito dalla malattia della depressione.
Che a nessuno venga in mente di sostenere che anche in Italia dobbiamo inserire nell’ordinamento il diritto alla felicità o che esso possa essere in qualche modo indotto da una o altra norma e affermato come già vigente nell’ordinamento giuridico italiano. Chi la pensa in questo modo è pregato di andarsene negli Stati Uniti. Già sono troppi i danni che l’ordinamento giuridico italiano (lo Stato italiano) – e quindi il popolo italiano – ha subito per l’immissione in esso di innumerevoli istituti alieni. Meglio un “cervello” in fuga in più che mettere in cattedra un altro adoratore della società statunitense. Ne abbiamo avuti fin troppi.
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Suggerisco: invece di "missione", almeno per quanto riguarda le professioni, parlerei di "vocazione" (cfr con il tedesco Beruf)
La Felicità è il prodotto di scarto del processo di raggiungimento della Virtù, un pò come i diritti sono grasso che cola dall'ottemperamento dei doveri.
Non so da che parte prenderlo questo articolo.
Cominciamo con la felicità. Reductio ad absurdum: dato che lo scopo della vita non può essere la ricerca della felicità, sarà la ricerca dell'infelicità? Un popolo infelice e deluso come quello americano (che pure ha scritto qualcosa al riguardo della felicità nelle pagine della propria Storia) che si ritrova un indicatore del proprio benessere come il PIL in costante ascesa, che conclusione può ispirarci? O che la felicità è tutta una balla insensata oppure che PIL e felicità sono mondi paralleli e molto distanti.
Propendo per la seconda ipotesi, ovviamente. Quindi qualcosa non va con quegli indicatori. Dicono solo quanto si sono arricchite le elites. E gli altri? Non contano nulla, parrebbe. E come farli entrare in quell'indicatore? Cambiando parametri, ad esempio. Che poi è quanto propone Pallante & Co.
Missione. Mi suona tanto male, dato che non mi sento minimamente missionario. Anzi, dato che detesto i missionari, quelli che hanno lo scopo di convertire l'infedele magari felice (eh…) al dogma del peccato originale.
La mia missione se proprio vogliamo chiamarla così è di essere felice (eh…) di mè stesso quando avrò esalato l'ultimo respiro. Rendo conto solo alla mia coscienza e se ritengo sia giusto mando a quel paese figli, genitori, parenti, amici e padroni. Non ho doveri nei loro confronti più di quanto ne abbiano loro nei miei. Ce la giochiamo alla pari: chi sgarra paghi e se la veda con la propria coscienza. Se sarò stato un cattivo genitore pagherò con il disprezzo che mi verrà dimostrato. Se sarò un cattivo amico, parente etc..idem. Non ho bisogno di sentirmi missionario, mi basta (e avanza) la mia coscienza.
PS trovo anch'io grottesco mettere per iscritto la ricerca della felicità in qualche Costituzione. Mancando una definizione universale di felicità questo intento si può prestare a qualsiasi abuso. Diversa cosa è, ad es., la qualità della vita: buon cibo senza troppe adulterazioni, buona aria senza troppe polveri sottili, buoni rapporti con i propri simili, accesso facilitato alle risorse e così via.
tra le diverse definizioni tratte dal Devoto-Oli di missione, questa mi pare la più consona all'articolo in questione.
missione=funzione cui si annetta una notevole importanza sul piano morale e sociale.
morale e sociale, ovvero quell'insieme di norme e credenze condivise come positive.
fai l'esempio della missione del genitore verso il figlio. ma pensa come è cambiata tale missione dal tempo delle corti, in cui tutte le maddri davano un'occhiata alla comunità dei figli che giocavano nella corte, e la missione del genitore attuale, isolato, separato dal gruppo, quasi sempre anch edalle famiglie di origine.
le missioni ch eelenchi sono frutto di una educazione, di un modo di vivere, di un modo di percepire il "giusto" e "corretto" ch eè una funzione dell'ambiente.
direi anzi che i costumi, la morale, il giusto e corretto, sono percezioni dialettiche con l'ambiente in cui si vive, ovvero ch esi influenzano a vicenda in un continuo evolversi di adattamento alle condizioni di vita.
ma se le missioni variano , anch egli obiettivi dell'uomo dovrebbero variare con essi.
mentre lo stimolo ad agire degli uomini sappiamo, come esperienza storicaconnaturato all'uomo e non all'ambiente in cui vive.
pensa ad un esempio al limite.
il cannibale sarà felice di cibarsi del cervello del nemico appena ucciso, per assumerne la forza vitale, non credo che nessuno di noi sarebbe felice di fare altrettanto.
pertanto, stabilito che il MODO di essere felice, o meglio di perseguire la felicità, è funzione dell'ambiente, non lo si può più ritenere un obiettivo univoco.
se invece per felicità si intende il soddisfare i propri desideri, allora comincio ad esser più d'accordo, perchè il tipo di desideri può essere indotto dall'ambiente, mentre il metaprogramma, ovvero la tendenza a soddisfarli, può essere imputato alla natura umana.
sotto questo aspetto allora può rientrare il cibarsi di un cervello umano, come il curare ed allevare un figlio, il provvedere alla famiglia, come ai genitori anziani.
come animali sociali, perseguiamo generalmente l'approvazione, prima della sfera a noi più vicina, ma anche via via più lontana, come l'approvazione sociale, quella del vicino, o dell'amico.
è da notare in questo senso, come anche una visione distorta dell'approvazione funzioni sovente. il bullo, commette anche reati per avere l'approvazione del gruppo, il ladro ruba per avere l'approvazione della moglie, o dei figli a cui provvede così la sussistenza, ecc…
beh, vista la definizione di missione, comunque, potrei dire che le missioni si seguono per avere l'approvazione di coloro che ci sono più o meno vicini, e l'approvazione è un feed back che ci rende particolarmente contenti.
pertanto lo percepisco come uno degli obiettivi , in generale, degli uomini, ma non l'unico.
@ Tonguessy
Mi sembra che siamo d'accordo che non ha senso cambiare parametro, così come non ha senso il parametro attuale (PIL)
I missionari non piacciono nemmeno a me. Tuttavia non utiliziamo il termine missione soltanto per indicare l'attività di coloro che svolgono proselitismo e convertono ad una o altra fede. Si sente dire spesso che "insegnare è una missione", tanto più oggi che non ti pagano. E Andrea ha segnalato un significato preciso: funzione – io direi anche semplicemente compito – al quale si annette particolare importanza sul piano morale e sociale. Particolare importanza che, per quanto riguarda i rapporti con i terzi (non il rapporto con noi stessi) è sovente rinforzata dalla legge, che rende quei compiti oggetto di precisi obblighi giuridici. Nemmeno io che ho scritto l'articolo mi sento un missionario, bensì penso di avere dei compiti da svolgere – che poi li svolga o meno; e che li svolga bene o male è un discorso del tutto diverso.
Il fatto che tu non abbia più doveri di quanti altri ne abbiano con te è ovvio e nemmeno mi sembra in contrasto con il contenuto dell'articolo: i doveri li hai tu e li hanno loro. Salvo il rapporto con noi stessi, che è con la nostra coscienza e che non è bilaterale in senso tecnico, i rapporti giuridici e sociali sono tutti bilaterali: tu devi a me e io devo a te. Ovvio che il momento ultimo del giudizio sarà quando esaleremo l'ultimo respiro. Ma in certo senso, una volta entrati nell'età della responsabilità e della maturità – età ovviamente variabile da caso a caso – siccome avvertiamo di avere dei compiti da svolgere, compresi quelli importantissimi che diamo a noi stessi, difficilmente il nostro giudizio sulla condizione che viviamo nei singoli momenti prescinderà dall'insieme di compiti che stiamo svolgendo o che vorremmo svolgere e non riusciamo a svolgere.
@ Andrea
Si tratta di uno degli obiettivi, non dell'unico. Sono d'accordo. Peraltro se intendiamo in senso ampio quello che ho chiamato il rapporto con noi stessi (l'anima, il pensiero, il corpo) e quindi, per esempio, consideriamo un dovere anche "restare fanciulli", almeno nel senso di trattenere dentro di noi un animo spensierato che sappia venir fuori quando vogliamo e reputiamo opportuno, converrai che resta poco e niente. Ma non perché io intenda limitare le esperienze della vita e quindi accogliere una concezione limitata della medesima. Bensì perché tutte le esperienze rientrano in una o altra missione.
Giusta l'osservazione sulla "relatività" nel tempo e nello spazio delle missioni. Esse sono sociali e culturali.
E naturalmente è anche vero che, alla fine, tutte quelle che a nostro avviso non sono missioni che dobbiamo svolgere, nonostante il contrario avviso della coscienza sociale, non sono nostre missioni e difficilmente il mancato adempimento inciderà sulla nostra felicità, salvo ripensamenti che talvolta avvengono.
Ottimo articolo che mi trova molto d'accordo anche. in più risponde a dei quesiti che proprio in questi giorni mi giravano per la testa.
Più semplicemente potremmo anche dire che l'essere umano cerca il piacere, inteso come maggiore sopravvivenza (per se, la sua famiglia, il suo gruppo…) e rifugge il dolore, come indicatore dell'avvicinarsi della morte.
In tutto questo "la felicità" non è un emozione bensì una condizione. Ed essa si realizza ogniqualvolta raggiungiamo uno scopo che ci siamo prefissi (missione, scopo, traguardo, meta…). Naturalmente dura quel tanto e basta. ll tempo di godersi un po' tale vittoria e subito un altro scopo dovrà soppiantare quello raggiunto. Un altra missione.
Si dice pur che un uomo non può esser felice senza uno scopo e senza la fiducia nelle proprie capacità di raggiungerlo?
Bene. Non la complicherei più di così. Che questo scopo sia una ragazza baciata, l'acquisto di un' automobile nuova o un 30 con lode all'università, la felicità è la condizione in cui ci troviamo al raggiungimento.
Una cosa acquistata ma che non ci siamo "sudati" e per la quale non abbiamo lottato non ci porterà di sicuro nella condizione di essere felici.
Grazie di nuovo per questo articolo! Ciao :)
grazie per il tuo commento, che apre anche le porte ad un ulteriore approfondimento dell'idea di felicità, anche perchè vedo i nostri due "campi d'azione" intrecciarsi inesorabilmente.
adesso io cercherò di esprimere a parole quello che secondo me è felicità, pur consapevole che esso non è uno stato, una condizione statica, ma una variazione, una sensazione in movimento che , pur a parità di condizioni esterne, nasce, si consolida e svanisce.
per me la felicità è comunque movimento dell'anima, non una contemplazione di uno stato. quello al massimo è quiete, assenza di tensioni, assenza di pulsioni, anche assenza di desideri inappagati, ma come vedi , esprimibile in termini di assenze.
appagamento, soddisfazione, riconoscimento da parte degli altri, approvazione, sono tutte emozioni di movimento, non condizioni statiche.
per esempio mi sentirò appagato per il raggiungimento di un obiettivo, per il quale avrò anche un riconoscimento e proverò soddisfazione, ma sarà un attimo, un momento, quello che credo sia l'istante del cambiamento dalla condizione di non appagamento a quella di appagamento, e come per tutte le altre sensazioni il cambiamento dall'assenza della senzazione positiva alla sua manifestazione.
ma il cambiamento è un attimo, poi subentra il dato acquisito, viene a mancare il cambiamento, e pertanto tali emozioni svaniscono, ci si abitua, non incidono più, ed allora ecco lo stimolo verso altre prove, altre mete, altri obiettivi.
direi che come la condizione di felicità è movimento, la condizione equivalente statica è estasi, assenza di movimento e assenza di spinte, godimento fermo in contemplazione del proprio stato.
le religioni induiste l'hanno codificato nell'assenza di movimento, di stimoli, di pensiero.
la mente ferma. condizione difficile non solo da raggiungere ma anche solo da immaginare.
allora comprendo cosa tu intendi con adempimento delle missioni, come un modo dinamico per passare dal desiderio, dall'immaginazione alla realizzazione, passaggio che dà tutte quelle sensazioni positive che chiamiamo felicità, ma che essendo transitorie, non le si può fermare in una situazione statica.
vincere ad un gioco, mi da soddisfazione, ma mi crea lo stimolo ancora maggiore di provare a giocare ancora.
difficilissimo smettere di giocare quando si vince, a meno di considerare tale vincita un passaggio di un gioco a livello superiore.
dico che le nostre trattazioni si intrecciano, perchè il valore, che è la grandezza economica che prendo a riferimento per definire un bene, è per definizione personale e variabile in funzione dell'ambiente, ma esprime il livello di desiderabilità di una qualsiasi cosa da parte di un individuo.
ed il desiderio degli individui verso le cose, che genera a volte l'appagamento, quando soddisfatto, rientra proprio in quella spinta verso il raggiungimento della felicità che ogni individuo persegue, pur non avendo ben chiaro in cosa consista.
ecco quindi come lo stimolo economico sia in effetti uno stimolo verso una felicità anche solo parziale, momentanea, fugace, legata alle cose, ai beni ed al loro possesso o comunque disponibilità arbitraria ed assoluta.
C'è una felicità che nasce dal terreno dell'affermazione di sè a dispetto della felicità degli altri ed un'altra che prende vita dalla consapevolezza che siamo ognuno parte di un tutto inscindibile dove non è possibile concepire la felicità a dispetto degli altri. Un mondo dove il dovere è il motore dell'impegno verso se stessi e verso gli altri è un mondo fatto di regole da imporre (perche "vere") dove è facile che si venga a istituire una morale del dovere, della "missione". In questo modo "il dovere" farebbe passare in secondo piano gli altri e la loro felicità che verrebbe dimenticata e accadrebbe lo stesso per la nostra felicità. Pensare che abbiamo dei doveri ci rende vittima, comunque, di un moralismo cattolico, è più giusto parlare di responsabilità. Ognuno di noi ha la responsabilità di migliorare i rapporti, le condizioni di vita, l'ambiente ecc. In una parola fare in modo che si sia, tutti quanti noi, felici di esistere, auspicando una gioia di vivere che mai ci abbandoni. Un mondo senza gioia, fatto di doveri, di "missioni", trovo che sia un mondo buio che impoverisce l'anima e il contributo di ognuno al miglioramento.
Un altro errore che non dobbiamo fare è quello di credere che la felicità sia un misuratore delle cose fatte, o per affermazine di sè, o per dovere verso il mondo. La prima opzione è quella imposta dall'IMPERO, una veste fatta indossare ad una condizione fondamentale dell'essere, la felicità, senza la quale l'uomo non potrebbe mai gioire di sè, degli altri, del mondo intorno, della possibilità che viene data per crescere allargando sempre più gli orizzonti. Queste sono possibilità che vengono date singolarmente, ad ognuno di noi, ma accresono la solidarietà, la compassione, la disponibilità a mettersi in gioco per la vita, che comprende tutto. La felicità e la vita vanno insieme perchè sono la stessa cosa in quanto solo attrverso la felicità si può vivere intensamente l'esperienza del quotidiano.
Dire che la felicità dipenda da altro, significa dare priorità ad un altro ordine, a qualcosa che non si regge da sè, ma che ha bisogno di essere sostenuto. Non facciamo noi l'errore di imporre agli altri le nostre verità. Perche ognuno è parte della verità, basta il rispetto di questa evidenza e il senso di responsabilità che ne deriva a sostenere la creazione di un mondo veramente nuovo. Lì non ci sarà un'ALTRO con cui confrontarmi per stabilire le priorità, ma "un altro me stesso" a cui starò dando una possibilità di essere felice.
@Salvatore
Non tanto non sono (completamente) d'accordo. Piuttosto ho un'altra prospettiva.
Io constato che i doveri – giuridici, morali e derivanti dal costtume – ci sono. Esistono. Sono un dato.
Il singolo può disconoscerli. Ossia può violare la legge, estraniarsi dalla coscienza sociale e dai costtumi diffusi nel suo tempo. Nessuno può impedire al singolo di sottrarsi deliberatamente e volontariamente ai doveri. E' mia opinione, che oltre un certo limite questo disconoscimento conduca a debolezza e non a forza, a squilibrio psichico e non a equilibrio. Ma questa è solo un'opinione.
E' un dato di fatto che noi, da adulti, svolgiamo quotidianamente azioni che, per oltre il 50% (talvolta per il 100%), sono adempimento di doveri.
Chi svolge spontaneamente e liberamente, senza lamenti e dispiaceri quei doveri direi che è in linea di principio felice. Chi li avverte come doveri e li viola o tiene comportamenti perché sa che "deve adempiere", sarà in linea di principio in sofferenza.
Naturalmente il ragionamento che ho svolto è parziale. Gravi eventi, come per esempio un lutto per la morte di un figlio, possono incidere molto sulla felicità di un uomo o di una donna. Ma anche in questo caso possono aversi diversi atteggiamenti. C'è chi si abbandona; è incapace di reagire; dimentica di avere ancora dei doveri (nei confronti del marito, se si tratta di una donna, o del marito, se si tratta di una moglie; di eventuali altri figli; nei confronti di se stesso; del suo dio, se crede in dio; e così via). E c'è chi ben presto o prima o poi prende atto che ha delle altre ragioni di vita; che deve ricominciare a vivere; che deve essere forte; che alcuni "prossimi" hanno bisogno di lui.
Il ragionamento che ho svolto è parziale anche perché molti uomini danno importanza al prestigio sociale, al potere e alla ricchezza e sono soddisfatti se raggiungono alcuni obiettivi e insoddisfatti se non li raggiungono. Io non esprimo un giudizio negativo rispetto a queste aspirazioni che caratterizzano tante persone, anche mie conoscenti. Non sono un moralista. Osservo, tuttavia, che al di là di casi patologici, caratterizzati da totale obliterazione della coscienza e da assoluto cinismo (un religioso direbbe che si tratta di persone assatanate) e individualismo, quanto più passa il tempo, tanto più il giudizio complessivo di queste persone su se stesse comincia a tener conto dell'amicizia del rapporto con i figli, dell'amore con la moglie, della stima del padre, dell'amicizia coltivata o tradita, ecc. ecc. e pertanto il giudizio complessivo sulle missioni tiene conto anche di quelle che oggettivamente avevamo e non soltanto di quella, pur importante, che ci siamo dati da noi stessi (diventare un grosso imprenditore, sindaco della città, un grande esecutore di musica classica, un grande attore di teatro o di cinema, ecc. ecc.) e nella quale, magari, abbiamo ottenuto un grande successo.
Infine io volevo sottolineare come la felicità non sia così importante nella vita delle persone che serenamente, con pazienza, tenacia, determinatezza, disponibilità, apertura si dedicano al raggiungimento delle missioni oggettive e di quelle che soggettivamente si sono date. Diverso è il caso delle persone infelici, le quali sovente muovono da quelle idee insensate, illogiche e immorali che ho segnalato nell'articolo.
@ Andrea
Ho molto apprezzato il commento. Non vedo dissensi. Ovvio che il giudizio complessivo che in linea di principio ispira il nostro stato d'animo, varia da momento a momento, è talvolta esaltato da un successo appena raggiunto ovvero è completamente dominato da una sciagura che ci è appena capitata.
Ribadisco che comunque la felicità è una condizione non essenziale per chi è sostanzialmente felice. E' soltanto chi si sente carente da uno o altro punto di vista e quindi infelice, che va alla ricerca della felicità. A queste persone si dovrebbe dire: Comincia ad adempiere i tuoi doveri per tre anni; non prendere scusa dalla tua pretesa sventura per rivolgerti nervosamente a tuo marito o per non accettare l''invito di Tizio o di Caio. Accetta di essere meno intelligente di Caio o Sempronio o comunque di aver voluto sempre evitare di voler disciplinare la tua intelligenza; accetta la tua condizione e non rompere i coglioni. Fai quello che devi fare per tre anni e vedrai che non sarai infelice.
Salvatore scrive: “Un mondo senza gioia, fatto di doveri, di “missioni”, trovo che sia un mondo buio che impoverisce l’anima e il contributo di ognuno al miglioramento.”
Non posso che gioiosamente concordare
Non mi è chiaro se un mondo con gioia non debba essere fatto da doveri e "missioni". Non mi è chiaro se la sola presenza di doveri e missioni impoverisca l'animo.
Io ovviamente credo che l'assensa di doveri e missioni – oggettive, ossia avvertite dalla coscienza sociale, o soggettive e magari contrarie alla esistenza sociale – implichi un mondo buio o meglio nichilistico,
D'atra parte la presenza di doveri e missioni non esclude i momenti di gioia, che arrivano spesso all'improvviso e non cercati. Sono momenti, più o meno brevi.
Talvolta per periodi lunghi la felicità o pienezza ci sembra tanta che ci sentiamo esplodere. Non è proprio gioia ma quasi. In ogni caso, mi sembra che la gioia sia una intensa emozione circoscritta nel tempo.
Perciò concordo con Salvatore se egli intende che dobbiamo cercare momenti di gioia – per me la vetta di una montagna; un traguardo ardentemente desiderato; una intensa sensazione di amore, per figli, compagna o genitori; un momento di solutudine al cimitero.
Dissento se egli intende sostenere che la vita dovrebbe essere senza doveri. Qualunque obiettivo ci poniamo, immediatamente dobbiamo fare qualche cosa. La volontà è autonomia, perché vogliamo l'obiettivo e quindi il mezzo (eventualmente prescelto tra più): voglio andare a Bologna – devo svegliarmi presto e recarmi a prendere il treno; voglio scrivere un libro – devo cercare un sufficiente periodo di tempo per concentrarmi a fondo; e così via. Autonomia significa che poniamo a noi stessiuna norma, un vincolo, un dovere. L'esercizio di una libertà è perdita dellaibertà (sei libero di sposarti o meno; ma quando ti sei sposato hai perso la tua libertà e hai dato a te stesso doveri: hai contratto un vincolo).
Ripeto, a me sembra che, più o meno ampia, la gamma di doveri esiste e incombe su di noi. Possiamo restringerla ma esiste. Non si tratta di dire se è bene o male, come non ha senso dire se è bene o male che un tavolo ssia un tavolo. Ammessa, come si deve, l'esistenza di questi doveri, mi sembra che sostenere che li si deve adempiere sorridendo e non pensando che si tratti di doveri e quindi volere proprio ciò che dobbiamo, sia un suggerimento da prendere in considerazione. Ovvio che sia importante gioire quando capita, a caso o perché riusciamo in qualche cosa che abbiamo ardentemente desiderato.
“a me sembra che, più o meno ampia, la gamma di doveri esiste e incombe su di noi.”
La partita ce la giochiamo sul senso di pesantezza che certe incombenze possono causare oppure sul senso di leggerezza che possiamo provare quando facciamo ciò che deve essere fatto senza sentirne la granitica incombenza.
Nessuno (non io sicuramente) vuole qui negare che ci siano aspetti che vanno risolti. Lavare i piatti, fare da mangiare, accompagnare i figli a scuola, procurarsi dei soldi e quindi lavorare.
Ma la vacanza oppure un buon sonno sono un’incombenza? Eppure ce lo dobbiamo in egual misura di un buon pasto o di un buon rapporto con i nostri simili. Se vediamo tutto come come in’incombenza può succedere che il sonno tardi ad arrivare, e le vacanze siano gran poco rigeneranti.
Faccio ciò che faccio perchè non mi sento di fare diversamente. Lavo i piatti così come scrivo questo commento. Incombenze?
Non mi va di fare il braccio di ferro con la mia volontà, ed ogni incombenza la sento cone una sfida nei confronti della mia volontà. Ci riuscirò? Sarò all’altezza dell’incombenza che mi si propone in tutta la sua spaventosa serietà?
Non sono un arrivista e ho imparato ad accettare le sconfitte. Anche nei confronti delle cose più belle che tardano ad appalesarsi (fosse anche un governo più decente per i meno abbienti) o che mai si realizzeranno.
Per me la vita rimane un gioco (pur con i suoi tratti di crudeltà) e come tale spero di continuare a viverla in futuro.
@ Tonguessy
Io continuo a non vedere divergenze.
A me sembra ovvio e poco negabile che se le tante azioni quotidiane che "dobbiamo compiere", perché ci siamo prefissi uno scopo o perché abbiamo accettato o ricevuto una condizione (padre, coniuge, figlio di genitore infermo ecc., incarico di lavoro), le compiamo volontariamente, ossia perché vogliamo compierle è veramente difficile cadere in una condizione di infelicità. Quando invece sentiamo il peso delle incombenze; quando per una o altra ragione non vogliamo fare ciò che siamo vincolati a fare (e non abbiamo la forza o la materiale possibilità di cambiare le condizioni dalle quali nascono certe incombenze che ci opprimono) la vita ci appare pesante.
Le vacanze non sono un'incombenza. Ma le ferie si. Già il fascismo e poi la Costituzione hanno previsto le "ferie obbligatorie". Naturalmente quando in estate andiamo in ferie non pensiamo che stiamo adempiendo un dovere, ci godiamo il tempo libero. Eppure siamo obbligati a riposarci. Ovvio che se qualcuno fa ferie perché è obbligato, ossia avverte il peso dell'obbligo perché la sua volontà non coincide con il contenuto dell'obbligo, starà poco bene.
Il sonno, che è un gran piacere quando lo vogliamo, è una necessità. La necessità crea più vincoli dei rapporti che creano obblighi. Se qualcuno, per alcuni giorni, volesse dormire poco o niente, magari per dedicarsi alla creazione artistica con prolungato impegno, riuscirebbe nello scopo per pochi giorni.
In ogni caso non ogni azione che compiamo è adempimento di un dovere. Mi sembra ovvio che chi non ha figli e moglie e/o chi ha tanti soldi con i quali paga coloro che compiono azioni per lui (fare la spesa, pulire la casa, assistere il padre infermo, guidare l'automobile in qualità di autosta, ecc.), ha meno incombenze materiali e spirituali. In questo caso le azioni veramente libere sono in quantità maggiore e puoi arrivare a casi in cui tutte le azioni sono libere.
Ebbene io non credo che il minor numero di doveri o addirittura la mancanza di doveri (spirituali e materiali) renda di per se più felici. Anzi, credo che soltanto spiriti eccelsi o superiori possano essere felici in coondizione prolungata (e quindi cercata e voluta) di mancanza assoluta di doveri (senza figli senza compagna, senza lavoro grazie alla rendita). In ogni caso questo spirito cercherà di vincolarsi a uno scopo, magari benefico. Insomma, là dove le condizioni della vita, per caso o per volontà, non ci danno vincoli, ci orientiamo a dare a noi stessi quei vincoli che danno il senso alla vita.
Concludo che divertimento significa di-vertere e – per non essere frainteso — che tutto ciò che sto dicendo vale dal momento in cui raggiungiamo l'età della responsabilità (che oggi in certi casi sopraggiunge a quaranta anni). L'infanzia, l'adolescenza, la giovinezza sono tutto un altro discorso.
Ciò che rende felici non è l'appagamento dei desideri, e nemmeno è la mancanza di doveri o al contrario dare il proprio contributo perche è giusto e appaga la coscienza.
Ciò che rende veramente felici è il sentirsi parte coerente di un flusso verso l'evoluzione dei rapporti, delle condizioni di vita, della comprensione di se e degli altri, del senso del nostro esistere.
Se c'è tutto questo le regole, semplicemente, non sono necessarie, in quanto l'uniformità, la coerenza, tra noi e le necessità intrinseche del mondo in cui viviamo, le rende obsolete.
Ciò che ci rende irresponsabili, cosa di cui ci si preoccupa in questo dibattito, è una prospettiva dagli orizzonti limitati al nostro sè, orizzonti ampi sono possibili se mettiamo da parte le nostre verità per calarci in una condizione di innocenza, di non giudizio, ma di empatia. E'questa empatia, coerenza e giustezza, che danno un ruolo chiaro e preciso alla nostra esistenza e che ci rendendono artefici creativi di quella evoluzione, ed è questo che dà pienezza all'esistenza e genera gioia di vivere. Il mondo in cui viviamo è malato per soluzioni che vengono dalla ragione, dalla necessità di affermare una visione, dalle contingenze o semplicemente dai nostri interessi personali. E' di questo che stiamo morendo e dobbiamo prenderci necessariamente la responsabilità di relizzare il nostro scopo "come Umanità": imparare a non sentirsi più singoli individui sperduti, in un eterno pellegrinaggio alla ricerca di un senso da dare alla propria esistenza, ma invece, imparare a sentirsi semplicemente Umanità, è questo che genera la vera felicità perche è la sola che ci riempie e ci appaga. Ed è anche per questo che la Felicità, in fondo, ci fa paura…
Il mondo in cui viviamo è malato per soluzioni che vengono dalla ragione
Già. La condivisione, arte malcompresa ai nostri giorni, è la capacità di darsi, di offrirsi. La ragione se ne sta in disparte a sentenziare quanto coglioni siamo a offrire una cena a degli amici invece di investire diversamente quei soldi/energie. Soldi spesi per le vivande e tempo perso a cucinare.
Ed il tempo è denaro, diceva uno che offriva soluzioni ragionate. Poteva anche aggiungere che lo spazio è diamante, no?
La condivisione……bella storia
@ Salvatore.
Non so. Ciò che scrivi è bello. Non so se siua vero. Non vedo la felicità come una meta così difficile da raggiungere.
Guardando gli infelici ed escludendo coloro che sono stati davvero sfortunati ma limitando lo sguardo a coloro che potrebbero stare nella nostra situazione e tuttavfia sono infelici, mi sembra che una prima grande causa dell'infelicità stia nella presunzione, che è quasi sempre presente. Sono persone che pensano che avrebbero raggiunto il risultato che si prefiggevano se non fossero stati sfortunati o ostacolati da un cattivo; e che non riescono a dimenticare la sfortuna o la cattiveria. Sono gli invidiosi: ragazze meno belle o meno brave negli studi rispetto alle amiche, che non accettano la propria condizione (magari sono anche esse belle e brave). Sono i pentiti, ossia coloro che hanno perso un'occasione nella vita o hanno fatto una scelta che credono sbagliata e trovano enormi difficoltà a riprendersi.
Sono tutte persone che non accettano se stesse. Il dovere di accettare se stessi è il primo dovere che si deve adempiere se non si vuole essere infelici.
Alla felicità credo poco (la infelicità, invece, la tocco spesso con mano). La felicità per me implica l' assenza di infelicità con l'aggiunta di ottimismo, accettazione di se stessi, tendenza a non arrabbiarsi per le cose quotidiane, cura della propria anima e del proprio pensiero, semplicità, disponibilità e una certa dose di follia infantile, che è bene preservare.
La felicità di cui parla Salvatore mi appare come qualcosa di religioso o di quasi religioso. Non so se esista, né ne vado alla ricerca. In ogni caso mi sembra che la politica, che già ha poco a che fare con la felicità come la intendo io ha ancor meno a che fare con la felicità come la intende Salvatore. Su questo punto, che in fondo era l'asserzione fondamentale dell'articolo (la critica del diritto alla felicità e la necessità di non affiancare alla sacrosanta critica del PIL la volontà di sostituirlo con altri indici sostitutivi di benessere spirituale e dunque di felicità collettiva) forse conveniamo.
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". La felicità per me implica l' assenza di infelicità con l'aggiunta di ottimismo, accettazione di se stessi, tendenza a non arrabbiarsi per le cose quotidiane, cura della propria anima e del proprio pensiero, semplicità, disponibilità e una certa dose di follia infantile, che è bene preservare."
Sono daccordo con te, ma se vogliamo un mondo che, come da prassi, non crolli dopo la verifica dell'inadeguadezza delle regole che si è dato, anche le migliori, allora queste cose la politica deve imparare a "comprenderle". In una parola deve imparare a rispettare l'umanità di ogniuno perche è quella che viene per prima. La Politica può essere solo la forma, l'intelaiatura che dà espressione a questo contenuto. L'Umanità sfugge agli steccati ideologici, alle barriere raziali, alla paura dell'altro e agli egoismi.
Comprende semplicità e ampiezza di vedute, ma anche accettazione dei limiti di ogniuno di noi perche non impone ma ci fà crescere. E' l'unica base veramente stabile che può dare durata alla politica e una speranza vera a questo mondo.