di CLAUDIO GIUNTA (italianista; Università di Trento)
Christopher Lasch (1932-1994) era un conservatore di sinistra. Che fosse un conservatore, non è difficile da dimostrare. Il suo libro più importante, The True and Only Heaven (tradotto da Feltrinelli col titolo Il paradiso in terra), è una critica dell’idea di progresso così come essa è stata formulata dai moralisti inglesi del Settecento (Mandeville, Hume, Adam Smith) e difesa, nel corso del Novecento, tanto dai liberali di destra quanto dai liberals di sinistra.
Il libro comincia così: «Questa indagine ha preso l’avvio da un interrogativo solo apparentemente semplice. Come può accadere che delle persone serie continuino a credere nel progresso, malgrado le importanti confutazioni che parevano aver liquidato una volta per tutte la validità di questa idea?».
Anche gli altri libri di Lasch sono, in sostanza, una riflessione sulle conseguenze negative che certi elementi della modernità hanno avuto sulla famiglia (Rifugio in un mondo senza cuore), sulla vita dei singoli (L’io minimo, La cultura del narcisismo), sul patto sociale che è alla base delle democrazie moderne (La ribellione delle élite).
Una riflessione non asettica, dato che Lasch prende sempre risolutamente partito a favore delle vittime della modernità: la famiglia, l’etica della responsabilità e del sacrificio, la religione, lo spirito comunitario. Il che (per prevenire l’obiezione più facile e più sciocca) non vuol dire affatto rimpiangere l’allegra comunità di Salem o le carrozze a cavalli: la critica del presente non dev’essere per forza – e non è quasi mai nel caso di Lasch – un modo per essere nostalgici.
Che Lasch fosse un uomo di sinistra è meno facile da dimostrare sia perché la ‘sinistra’ non si può identificare con un sistema di valori costante nel tempo e nello spazio (altro è la sinistra americana degli anni in cui scrive Lasch, tra i Sessanta e i Novanta, e altro è la sinistra italiana degli stessi anni, o dei nostri) sia perché Lasch stesso si convinse a un certo punto che le etichette di ‘destra’ e ‘sinistra’ avevano fatto il loro tempo e che era ora di rinunciare, oltre che a certe vecchie idee, a questo vecchio linguaggio.
Questo invito è fatto da Lasch soprattutto per reazione alla sinistra radicale americana nata dai movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Con la pretesa illusoria di ‘abolire l’ordine borghese esistente’, sostiene Lasch, i movimenti libertari hanno fornito alla società dei consumi tutti gli alibi culturali di cui essa poteva aver bisogno: «Sono i fatti a rendere ormai inadeguate le critiche di tipo libertario alla società moderna […]. Sono ancora molti i ‘radicali’ che continuano a dirigere la loro indignata protesta contro la famiglia autoritaria, la morale sessuale repressiva, la censura in campo letterario, l’etica del lavoro e altre istituzioni fondamentali […] che in realtà sono state indebolite o abbattute dallo stesso capitalismo avanzato. Costoro non si rendono conto che la ‘personalità autoritaria’ non rappresenta più il prototipo dell’uomo economico. L’uomo economico è stato a sua volta sostituito dall’uomo psicologico dei giorni nostri – il prodotto finale dell’individualismo borghese»
(La cultura del narcisismo, p. 10).
Molte delle pagine più convincenti di Lasch sono un’analisi di questa inattesa alleanza tra liberismo e libertarismo. E dato che questa alleanza è ancora, più di trent’anni dopo, la forma del nostro tempo (il lettore italiano – il telespettatore italiano – non avrà bisogno di esempi), le sue osservazioni meritano ancora di essere considerate con grande attenzione. Quanto all’etichetta di ‘sinistra’, per quel che vale e significa oggi, direi che essa può essere applicata a buon diritto alla sua critica del capitalismo odierno, cioè delle forme che il capitalismo ha assunto prima negli Stati Uniti e poi, negli anni successivi alla morte di Lasch, nel mondo globalizzato.
Tale critica tiene ferma l’idea del conflitto di classe («Se riusciremo a superare le false polarizzazioni generate dalla politica del genere e della razza, scopriremo forse che le divisioni reali sono ancora quelle di classe […]. È appena il caso di ricordare che le élite che danno il tono alla politica americana, anche quando sono in disaccordo praticamente su tutto il resto, hanno un forte interesse comune nel voler soffocare una politica di classe»: La ribellione delle élite, pp. 96-97); ma non prevede e non auspica un ‘superamento’ del capitalismo in senso socialista.
Al contrario, sottolinea i guasti dello stato assistenziale e sottolinea le virtù, tipicamente americane, della libera iniziativa e della proprietà privata. Ma trova che queste virtù siano state mortificate dal modo in cui il capitalismo si è evoluto nel corso del secolo XX, a causa dell’estendersi dei trusts industriali e della produzione su larga scala a danno dell’artigianato e del piccolo commercio, del peso crescente dell’élite finanziaria, dell’aggravarsi delle disparità economiche tra dirigenti o manager e salariati, della corrosione del carattere indotta dal consumismo.
Su questo terreno – e veniamo al tema che qui ci interessa – il pensiero di Lasch incontra la tradizione populista. A questa parola esecranda, perché collegata di solito ad esperienze politiche atroci o pessime (Hitler, Mussolini, Perón, Ahmadinejad, Berlusconi), Lasch restituisce dignità recuperando non – come sarebbe naturale fare per un intellettuale europeo – la tradizione del populismo russo bensì l’esperienza del sindacalismo agrario e operaio americano dell’Ottocento, che negli anni Novanta confluirà nel People’s Party e poi nel Partito Democratico: un’esperienza centrata su valori come l’eguaglianza delle opportunità, la competenza, la mutua collaborazione, il senso comunitario, e dunque nemica giurata delle nuove forme di divisione del lavoro che i monopoli e la meccanizzazione stavano imponendo alla piccola borghesia americana.
«La condiscendenza e il disprezzo con cui tanti storici guardano al populismo del secolo scorso – scrive Lasch – implicano la convinzione che il nostro tempo abbia in qualche modo scoperto il sistema di conciliare la libertà e l’uguaglianza con il sistema salariale, la finanza moderna e l’organizzazione aziendale della vita economica. Nulla, nella storia del ventesimo secolo, giustifica una tale fiducia» (Il paradiso in terra, p. 211).
Il nome di Lasch torna ogni tanto nel dibattito, ma non spesso come dovrebbe. Sul “New York Times” (5 febbraio 2010), Lee Siegel ne ha parlato come di una specie di profeta, capace di prefigurare con decenni d’anticipo molti dei mali che affliggono la vita odierna. Lo credo anch’io, ma credo anche che l’interesse di Lasch vada ben al di là della sua preveggenza. Su molte cose si può e forse si deve non essere d’accordo con lui. La sua sfiducia nell’intervento pubblico e in tutto ciò che anche lontanamente faccia parte della galassia dei ‘servizi sociali’ è eccessiva. Così come è eccessiva la sua fiducia nella bontà intrinseca di quelle associazioni involontarie che sono la famiglia, la chiesa e la comunità d’appartenenza.
I suoi appelli alle virtù civiche e al senso comunitario scolorano spesso nel wishful thinking, o nell’utopia, e fanno sì che alcuni dei suoi saggi assomiglino, più che a delle analisi, a delle prediche (ma anche di prediche c’è bisogno, ogni tanto). E le sue idee sulla religione e sul ruolo che alla religione dovrebbe essere concesso nella vita politica mi sembrano, semplicemente, sba
gliate. Ed è anche chiaro che di ogni sua parola si può sempre dare una lettura ‘di destra’ o ‘reazionaria’: Siegel ha ragione a osservare che molte delle cose che Lasch dice nei suoi libri potrebbero piacere, oggi, ai membri del Tea Party (molte: ma molte no).
Ma, pur ammettendo tutto questo, Lasch aveva il dono di saper individuare i problemi veramente cruciali del nostro tempo e di riuscire a dire sempre, su questi problemi, delle cose originali. Per questo Lasch è così attuale: su temi tanto disparati e oggi tanto urgenti come l’immigrazione e l’integrazione razziale, il narcisismo di massa, la condizione femminile dopo il femminismo,
il dilagare dell’infotainment [l’informazione-spettacolo, ndr], la pseudo-democratizzazione del lusso, la corruzione dello sport, l’invadenza della terapeutica, la crisi dell’istruzione pubblica, i suoi libri hanno ancora moltissimo da dire.
Fonte: “Italianieuropei”, 4/2010
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