Alternativa: scuola statale, la grande riforma
La proposta di riforma della scuola che offriamo in lettura è meravigliosa. E' ciò che avremmo voluto scrivere se fossimo stati in grado! Idealismo, realismo, concezione filosofica dell'uomo, consapevolezza della condizione disarmante che ci troviamo a vivere, conoscenza approfondita del capitalismo, uno stile "da manifesto" intrecciano le forze in un testo di insolita profondita. Prego i lettori di leggere la Proposta con la dovuta lentezza ("dovuta" nel senso che è un dovere nei confronti degli autori). Li prego anche di vincere la pigrizia e di diffondere il testo a parenti, amici e colleghi, con tutti i mezzi a disposizione. Il testo merita di essere stampato, riletto – almeno da parte degli addetti ai lavori – e destinato a venerata cura (SD'A).
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di Massimo Bontempelli e Fabio Bentivoglio Megachip
1. La scuola moderna nasce in Francia, con la legislazione della Convenzione del 1792-95, e si diffonde in Europa tra l’ultimo scorcio del Settecento e i primi due decenni dell’Ottocento (in Italia con la legge Moscati-Paradisi del 1802), come istituzione nazionale, statale, laica, con il compito di fornire agli individui gli strumenti culturali per comprendere ed esercitare i diritti di cittadinanza. Questa è la concezione della scuola che, con contenuti e metodi ovviamente aggiornati all’orizzonte storico attuale, dobbiamo ancora oggi difendere in modo intransigente e coerente.
Premessa alla Proposta quadro di riforma della scuola pubblica statale
2. Allo stato delle cose la scuola pubblica è tale solo formalmente: la cosiddetta “autonomia” ha trasformato ogni singolo istituto in modello privatistico-aziendale, così come, all’opposto, la scuola privata, è stata di fatto trasformata in scuola pubblica.
Al di fuori di un sistema nazionale della pubblica istruzione non rimane, entro le dinamiche integralmente capitalistiche della società attuale, che deculturizzazione di massa, passività mentale generalizzata, pragmatismo impoverito.
3. La concezione di un sistema nazionale della pubblica istruzione traduce in pratica, a livello di scuola, il dettato dell’articolo 3 della Costituzione sui diritti egualitari della cittadinanza integrativi dei diritti universali dell’uomo tutelati dall’articolo 2: tale articolo esige la rimozione, da parte specificamente dello Stato (“è compito della Repubblica rimuovere”), degli impedimenti all’eguaglianza dei diritti dei cittadini ed alla loro partecipazione alla vita democratica del Paese. Tra gli impedimenti di natura sociale devono essere annoverati la deprivazione culturale prodotta da determinate condizioni ambientali, familiari, di reddito, urbane e di induzione pubblicitaria.
4. Esistono oggi tendenze, nella sinistra anche radicale, a valorizzare innovazioni introdotte nella scuola negli ultimi decenni, non importa qui se reali o finte, con lo scopo dichiarato di rendere la scuola più democratica e al passo con i tempi: dall’autonomia dei singoli istituti alle valutazioni mediante test, dalle risposte ad esigenze puramente localistiche all’assunzione di tecnicismi spacciati per scientifici, dalla scomposizione dei gruppi classe a ventagli di nuove discipline attualizzanti e via dicendo. La diffusione di queste idee nella sinistra, spesso con il vacuo argomento che il sistema nazionale della pubblica istruzione sarebbe “gentiliano”, è l’ennesima prova della necessità non più rimandabile di superare la dicotomia storicamente datata di destra-sinistra.
Una vasta letteratura ha ormai dimostrato il carattere illusorio di tali innovazioni e gli effetti destrutturanti sull’intero sistema. I fatti stanno comunque a dimostrare che, sotto la cascata di queste innovazioni, tutte le componenti della scuola e le sue dinamiche interne sono tragicamente peggiorate.
5. Chi sostiene queste innovazioni, ritenendo che i loro effetti negativi siano dovuti al loro uso ministeriale, e che possano venire riempite da contenuti di progresso, opera inconsapevolmente per una scuola destrutturata, in funzione di un addestramento al consumo e non di un’educazione al pensiero.
6. Quello per cui occorre battersi, cercando di mobilitare le forze disponibili dentro la scuola su pratiche di obiettivi, è una scuola di contenuti di vero spessore culturale la cui assimilazione da parte dei giovani consenta loro di decodificare dal punto di vista sociale, politico, antropologico ed esistenziale il mondo in cui si è chiamati a vivere; si tratta di diradare le nebbie spiritualmente asfissianti delle false narrazioni mediatiche dei poteri costituiti, e di superare gli schemi esplicativi precostituiti al sapere.
7. A questo scopo la scuola, proprio perché diretta a nuove generazioni senza memoria collettiva, abitanti di una società senza radici, dovrà darsi un asse culturale di tipo storico: ciò significa la storicizzazione di tutti i suoi contenuti, non soltanto specificamente storiografici, ma anche scientifici, tecnici, artistici e letterari.
Per definire gli itinerari didattici di una simile storicizzazione occorrerà – come per tante altre questioni inerenti la scuola – un serio lavoro collettivo, culturale e politico. Alcuni spunti propedeutici a tale lavoro sono indicati nella Proposta di riforma che segue.
PROPOSTA QUADRO DI RIFORMA DELLA SCUOLA PUBBLICA STATALE
Per un’idea regolativa di scuola pubblica statale nazionale
Con questo scritto intendiamo proporre, anche attraverso l’indicazione di obiettivi concreti, la prospettiva entro cui a nostro giudizio hanno un senso la discussione e il confronto sui temi della scuola e della formazione della gioventù del nostro tempo.
Il disegno del sistema-scuola che tracciamo come auspicabile non è una possibilità concreta dell’oggi, dato che tutte le forze economiche e politiche dominanti, alleate con il prevalente senso comune, spingono in direzione opposta a quella qui indicata, ma serve ad indicare, appunto, la prospettiva entro cui muoversi. Quanti, magari ritenendosi oppositori delle politiche scolastiche dei governi, condividono l’idea di senso comune che la scuola debba istruire i giovani a proiettarsi nell’agone competitivo, possono evitare la fatica di leggere quanto segue. Diversamente, con quanti concepiscono la scuola come luogo di educazione dei giovani attraverso il mondo del pensiero e della cultura, sarà possibile una feconda discussione.
Si potrebbe obiettare: se si ritiene che il disegno di scuola che segue non sia oggi concretizzabile, a che cosa serve parlarne? Serve a mantenere in vita un’idea regolativa di scuola pubblica statale nazionale. Il fatto che tale idea possa vivere oggi soltanto sul piano teorico, non ne depotenzia la forza, perché mantenere in vita un criterio di giudizio razionalmente fondato è l’unico modo per cogliere gli aspetti difettivi dell’attuale scenario scolastico (e non solo). Si potrebbe fare un’analogia con un’ipotetica riforma fiscale che realizzi davvero il dettato costituzionale promuovendo un’effettiva progressività del prelievo tributario. Anche in questo caso si tratterebbe di un’idea che oggi può vivere solo sul piano teorico, perché non ci sono le condizioni storiche per realizzarla. Nessuno, però, riterrebbe inutile mantenere in vita l’idea della necessità della giustizia fiscale, anche se esclusa dall’attuale orizzonte storico.
Sotto questo riguardo il mondo della cultura, gli intellettuali, gli insegnanti, e comunque quanti hanno a cuore il pensiero vivo e creativo, dovrebbero esser coscienti che la linea della resistenza (nel senso di preservare la possibilità di costruzione di un futuro diverso), passa anche attraverso la conservazione di idealità razionalmente fondate, anche quando queste sembrano del tutto oscurate dall’orizzonte storico.
Uno stupendo frammento di uno dei più grandi filosofi dell’antichità, Eraclito, vissuto anch’egli in un frangente storico in cui sembravano persi alcuni fondamentali valori della civiltà, e con essi la speranza di poterli rigenerare, ci ricorda che la giustizia e la verità spariscono definitivamente dall’orizzonte umano, non tanto a causa delle contingenze storiche che le oscurano, ma ad opera del pensiero che si arrende ai fatti, e che non cercando più né la giustizia né la verità le rende introvabili e quindi davvero irrealizzabili.
Un’ultima nota ad evitare equivoci e sterili discussioni. È diventato costume etichettare come difensore della “scuola tradizionale” chiunque critichi la “scuola delle riforme e dell’innovazione”, inaugurata da Luigi Berlinguer e portata avanti dagli ultimi governi di centrosinistra e centrodestra. Si tratta di una sciocchezza, ma è talmente in uso che merita di essere liquidata sia pure in due parole. Quella che si è soliti chiamare la “scuola tradizionale” era ormai giunta al capolinea, nel senso che in quella scuola i contenuti erano trasmessi in modo meccanico, arido, con formalismi insopportabili. Quella scuola, dunque, doveva essere radicalmente riformata, attingendo però i criteri della riforma dalla cultura e dal pensiero. Si trattava cioè di rivitalizzare la scuola culturalmente e didatticamente, guidati da idee forti. Come sono andate le cose ormai lo sappiamo: è stata imboccata la direzione opposta, attingendo i criteri della riforma da una sorta di aziendalismo caricaturale. Gli effetti (ampiamente prevedibili e previsti) sono sotto gli occhi di tutti, e se mai si potrà uscire da questo immane disastro, non è certo riproponendo una scuola morta.
Il sistema scolastico
Tre ordini di scuola corrispondenti alle tre fasi dell’età evolutiva
Un valido sistema scolastico dovrebbe ancora oggi rimanere articolato nei tre ordini di scuola –elementare, media e superiore- sui quali sono stati originariamente edificati in Europa, sull’onda della Rivoluzione francese, i sistemi nazionali della pubblica istruzione.
Oggi, tutti dicono che la prima legge italiana sulla scuola è stata la legge Casati del 1859, che ha predisposto il sistema scolastico nazionale nella prospettiva imminente dell’Unità d’Italia. Non è così. La legge Casati attinge, oltre che al modello prussiano di scuola (che portava l’impronta di personalità della statura di Humboldt e di Hegel), alla legge Moscati-Paradisi del 1802, che per prima ha costituito un sistema nazionale della pubblica istruzione, concepito per la Repubblica italiana, uno dei nuovi Stati nazionali nell’ambito dell’Europa napoleonica. Essa, per prima, ha articolato la scuola in tre livelli successivi, corrispondenti a tre fasi dell’età evolutiva, caratterizzate da distinte strutture cognitive – che richiedono modi distinti e distinti contenuti di apprendimento- che non sono cambiate negli ultimi due secoli.
Dopo l’infanzia vera e propria c’è la fanciullezza ancora infantile, caratterizzata da un pensiero non in grado, se non scarsamente ed episodicamente, di superare nell’astrazione l’immediatezza delle percezioni e delle immagini; a questa fase corrisponde l’insegnamento elementare.
C’è poi una fanciullezza diversa, preadolescenziale, ancora emotivamente inglobata nelle dipendenze parentali, e quindi incapace di dislocarsi nella concretezza delle molteplici prospettive del mondo, ma vigorosamente capace di apprendere a compiere procedimenti astrattivi e a manipolare mentalmente entità formali; a questa fase corrisponde l’insegnamento medio.
Infine l’adolescenza, in cui le astrazioni mentali diventano capaci di calarsi nella concretezza del mondo per adattarla all’idea, e di agire come riferimenti di ridefinizioni identitarie; a questa fase corrisponde l’insegnamento superiore.
La funzione dell’esame di Stato al termine di ciascun ciclo scolastico
Ogni ciclo scolastico dovrebbe terminare con un esame di Stato affidato a esaminatori esterni, quale forma di pubblico controllo dell’effettivo raggiungimento delle finalità educative di quel tipo di scuola.
In questi anni l’idea “gentiliana” di esami di Stato conclusivi di ogni ciclo scolastico è stata oggetto di continui attacchi, con due argomentazioni sopra a tutte:
- è un’idea da superare per il solo fatto di essere “gentiliana” (e questo rivela l’acume dei critici)
- è un’idea da superare perché riflette un’idea di scuola selettiva, mentre la “vera” scuola è quella che porta tutti al successo formativo (“la scuola di tutti e di ciascuno”).
L’esperienza di questi anni ha mostrato il contrario: la mancanza di esami, finalizzati allo scopo di cui si è detto, si è tradotta nel favorire prassi didattiche che hanno reso più virulento quel classismo che si voleva eliminare. Se la scuola, infatti, fornisce titoli privati del loro valore sociale, se i suoi esiti sono espressione di percorsi parziali e incontrollabili, è inevitabile che accada quel che è accaduto, e cioè che la selezione si sposti a momenti successivi alla scuola ed alla stessa università, quando lo svantaggio dei ceti bassi è incolmabile, perché si misura sull’entità del patrimonio familiare e sul livello delle relazioni sociali che possono garantire l’accesso alle professioni.
Un asse culturale per la scuola elementare
La scuola elementare è quella da cui maggiormente dipende il successo o l’insuccesso dell’intero sistema di istruzione pubblica statale
La scuola elementare (attualmente denominata “primaria”) è quella da cui maggiormente dipende il successo o l’insuccesso dell’intero sistema di istruzione pubblica statale. Sulla trasmissione di saperi e valori di una civiltà attraverso la sua scuola, oggi si esercita la doppia pressione destrutturante di un’economia del profitto socialmente totalitaria e di una tecnica universalmente pervasiva. Perciò, a parte l’eccezione di quei bambini che hanno la fortuna di vivere in un ambiente costruttivo e stimolante dal punto di vista cognitivo ed emotivo, il depauperamento intellettuale e morale, prodotto su scala di massa dall’odierna società del mercato e della tecnica, diventa un destino inevitabile se non è vigorosamente contrastato dall’insegnamento scolastico a livello dell’istruzione primaria e dell’età infantile. Se l’insegnamento elementare non incide adeguatamente sui bambini, questi non saranno in grado di interiorizzare i contenuti della scuola media e ancor più di quella superiore; essi finiranno così per proteggersi da questa incapacità con l’indisciplina scolastica, la distrazione mentale e la reazione di rigetto per lo studio.
Quindi, soltanto degli individui che hanno ricevuto un’educazione elementare solida e strutturata sono in condizione di ricevere l’insegnamento medio e superiore. Detto in altri termini, nel mondo di oggi, se l’istruzione elementare non consegue i suoi scopi, nessuna scuola funziona come scuola.
Le quattro condizioni necessarie perché la scuola elementare possa assolvere il suo compito educativo
La scuola elementare può assolvere il suo compito di educare all’apprendimento, se sussistono queste quattro condizioni.
1) In primo luogo la sua massima valorizzazione sociale, per riceverne sufficiente prestigio e cogenza agli occhi dei bambini, così da disporre positivamente la loro attenzione verso l’impegno per il sapere, a fronte della forza invasiva delle immagini televisive, dei giochi tecnologici e dell’addestramento al consumo.
Non si può, però, fare opera di valorizzazione della scuola elementare senza richiedere ai suoi insegnanti un alto profilo professionale, e senza aver aumentato le loro retribuzioni, più dei professori medi e superiori, come riconoscimento della maggiore difficoltà e dell’importanza strategica dell’insegnamento elementare.
2) In secondo luogo occorre che i bambini frequentino la scuola con orari prolungati, necessari a darle un effettivo peso per riequilibrare i dislivelli nelle capacità espressive e di apprendimento dovuti alle diverse provenienze sociali, di classe e di famiglia. Ciò esige, naturalmente, una scuola che offra strutture coerenti con la realizzazione di questo programma, quindi mense, spazi, e ambienti che aiutino il bambino a sviluppare le proprie potenzialità in relazione con gli altri.
3) In terzo luogo la scuola elementare esige la figura di un vero professionista che educhi al movimento e allo sport: nuotare, correre e muoversi nel modo corretto richiede allenamento costante sotto la guida di ottimi insegnanti. Il movimento, per i bambini, è necessario come l’aria: i fondamentali dell’educazione fisica devono essere interiorizzati in questa fascia di età. Non solo: un’adeguata attività sportiva è necessaria oltre che per lo sviluppo equilibrato del corpo, anche perché abitua alla corretta elaborazione di emozioni come l’aggressività e la competitività, al rispetto delle regole del gioco e dell’avversario, alla collaborazione con i propri compagni nel caso degli sport di squadra.
I finanziamenti per avere scuole elementari dotate delle necessarie strutture sportive (piscine vere, palestre vere, impianti veri) si potrebbero recuperare con il risparmio che ne conseguirebbe sulle spese sanitarie destinate a curare le tante patologie causate dal pessimo stile di vita cui i bambini sono oggi costretti, sia sui banchi di scuola, sia negli ambienti cittadini. La valorizzazione sociale e il tempo lungo di frequenza sono essenziali perché la scuola elementare assolva il suo compito, ma lo sono come presupposti, come condizioni.
4) La realizzazione degli scopi educativi della scuola elementare esige una quarta condizione, fondamentale, e cioè un asse culturale di tipo linguistico, finalizzato al pieno possesso della lingua materna in tutti i suoi aspetti e usi.
La filosofia, infatti, ha dimostrato che il rapporto dell’individuo con le radici storiche costitutive del suo essere è in origine un rapporto immediato, anteriore a ogni conoscenza e riflessività, e che tale immediatezza è il linguaggio. Il bambino umanizza la sua iniziale animalità incorporando in sé la storia da cui proviene attraverso l’apprendimento della lingua in cui quella storia è condensata: la lingua parlata dall’individuo è inizialmente la sua storia non conosciuta che parla in lui. Prima di arrivare a pensare usando creativamente il linguaggio, l’individuo non pensa che il pensato del linguaggio. Prima di arrivare a elaborare con il linguaggio schemi e valori, manifesta schemi e valori espressi dal suo linguaggio: le lacune, le opacità, le strettoie nell’articolazione del linguaggio non superate nell’infanzia sono elementi frenanti o addirittura preclusivi di tanti apprendimenti nelle età successive.
Le scelte didattiche conseguenti al presupposto teorico
In conformità a questo presupposto teorico si dovrebbe comprendere il perché la scuola elementare non dovrebbe disperdere le attività dei bambini in troppi rivoli, ma concentrarsi sul far imparare la lettura, la scrittura, le regole grammaticali, la ricchezza del lessico, l’uso corretto della sintassi, elementi di logica e di retorica, la capacità di descrivere e riassumere fatti ed esperienze, la capacità di seguire e produrre narrazioni. Tutto questo attraverso attività scolastiche di esplorazione dello spazio, di gioco, di discussione, di recezione di racconti storici, o mitologici, o letterari. La scuola elementare dovrebbe insomma garantire a tutti i bambini della nazione il pieno possesso della lingua materna, perché solo questo possesso è la condizione per continuare ad evolversi mentalmente.
Un asse culturale per la scuola media
Scopo educativo della scuola media: lo sviluppo della capacità astrattiva formalistica
La scuola media corrisponde a una fase successiva dell’età evolutiva, quella in cui l’ancoraggio immediato al linguaggio proprio dell’infanzia tende a trasformarsi nella manipolazione mentale dei suoi simboli, astratti dal contesto concreto in cui sono dati. Questa corrispondenza indica per se stessa il compito educativo naturalmente proprio di una scuola media: lo sviluppo della capacità astrattiva formalistica, produttrice di quelle entità che la filosofia ha definito universali astratti. Si tratta di una capacità cognitiva assolutamente fondamentale, perché, pur non coincidendo né con lo spirito critico né con la creatività mentale, ne è la condizione di base. D’altra parte, pur essendo insita nella preadolescenza una tendenza mentale al passaggio da una conoscenza meramente sensibile a una conoscenza astrattiva, tale tendenza, lasciata alla sua evoluzione spontanea, si sviluppa poco e male. Per questo il suo sviluppo deve essere assunto come compito strategico di una scuola rivolta a quella fascia di età.
Un asse culturale che privilegi le materie che educano all’astrazione e al ragionamento logico
Definito lo scopo educativo della scuola media, ne discende che è la matematica la disciplina più educativa che deve dettarne l’asse culturale: il suo insegnamento dovrebbe essere meno noioso e pesante possibile, ma ad esso andrebbe dedicata una quota importante delle ore di lezione, riducendo drasticamente la dispersività assurda degli odierni contenuti che caratterizzano la scuola media.
Attorno alla matematica dovrebbero esserci poche materie importanti. La prima, per importanza, dovrebbe essere la geografia dell’Italia, dell’Europa e del mondo, fisica, politica e astronomica. Si tratta di un indispensabile strumento di apprensione mentale della realtà, utile e possibile come educazione all’astrazione rispetto alle esplorazioni concrete della scuola elementare, e prerequisito di ogni conoscenza antropologica successiva. Una simile geografia è infatti costituita da nozioni, disegni cartografici, quantificazioni e connessioni cui si giunge soltanto medianti procedimenti astrattivi dall’esperienza sensibile (sapere che cosa è un fiume è ben più che vedere scorrere sotto i propri occhi le acque del fiume che attraversa la città; capire che cosa è la densità di popolazione di una città è ben più che percepirne l’affollamento durante una passeggiata ecc.).
In questa prospettiva si potrebbe discutere anche l’opportunità di inserire il latino: a suo tempo soppresso perché discriminatorio, potrebbe non esserlo più se studiato dopo una scuola elementare rigenerata. Come lo studio della geografia ben fatto opera sinergicamente con l’apprendimento matematico nel promuovere lo sviluppo della capacità astrattiva, altrettanto il latino promuove lo sviluppo delle facoltà astrattive, è propedeutico al ragionamento logico, ed è dotato di forza di retroazione nella conoscenza della nostra lingua (che deve essere stata adeguatamente assimilata alle elementari). La questione del latino dovrebbe comunque essere discussa, senza pregiudizi.
La scuola media è quella più adatta per un primo insegnamento di una lingua straniera.
Attività sportiva tassativamente non agonistica
Per quanto concerne lo sport, il discorso è analogo a quello svolto per la scuola elementare, ovviamente adattato alle esigenze dello sviluppo fisico di questa fascia di età, e organizzato con modalità tassativamente non agonistiche.
È utile ricordare come l’assimilazione dei principi di una vera pratica sportiva oltre ad essere determinante per il benessere dell’individuo, rappresenti la via più logica, utile e lungimirante per ridurre una gran quantità di patologie sociali con gigantesco risparmio in termini di spese farmaceutiche e più in generale di spesa sanitaria. Viene, legittimo, il dubbio che sia proprio questo ciò che si vuole evitare: quello che per noi è benessere e riduzione di spesa, dal punto di vista dei tanti soggetti che operano con logiche di mercato in ambito sanitario è, al contrario, “malessere” e contrazione dei profitti. Del resto, viviamo in un contesto sociale in cui ci si indigna se uno stadio di calcio non ha strutture ipermoderne, ma non ci si indigna quando i propri figli trascorrono la parte più importante della loro giornata e della loro vita in edifici le cui condizioni dovrebbero essere percepite come una vergogna nazionale.
Un asse culturale per la scuola superiore
L’adolescenza è l’età più a rischio in una società integralmente costruita intorno alla logica del mercato
La scuola superiore è la scuola frequentata dagli adolescenti. L’adolescenza è l’età della ridefinizione identitaria, dei problemi relazionali, dell’ansia esistenziale, dei bisogni ideali. Ed è, quindi, l’età più a rischio in una società integralmente costruita intorno alla logica del mercato e alle prescrizioni della tecnica: una società che sottomette identità, relazioni, elaborazioni e progetti a stili di vita decisi dalle convenienze aziendali e appiattiti sul consumo.
La storia è la disciplina adatta a costituire l’asse culturale di una scuola superiore
Per ritrovarsi e dirsi chi è e cosa vuole, l’adolescente deve riannodare mentalmente i contenuti della propria esistenza a un contesto globale che contiene le loro ragioni generative, cioè ad una storia. Senza una storia di riferimento, tutto è dato senza significato alcuno. La storia è trattenuta dalla memoria, per cui la sua appropriazione mentale è la ricostituzione di una memoria delle radici oggi di vitale importanza, perché minacciata di estinzione da un mondo fatto del solo presente delle cose da consumare e manipolare.
La storia dovrebbe costituire dunque l’asse culturale di una scuola superiore che sia veramente tale, in tutti gli indirizzi in cui la si voglia ripartire. Ciò significa che tutte le discipline di studio superiore, dalla letteratura alla filosofia, dalla fisica all’arte, dall’informatica alle scienze, dovrebbero essere insegnate in modo tale da poter essere collocate nella storia e comprese sotto l’aspetto storico. Senza il tessuto connettivo concettuale costituito dalla storia, l’isolamento settoriale e specialistico in cui sono costituite le discipline odierne le rende dispersive e dogmatiche.
Alcuni esempi
Se nell’insegnare la geometria euclidea, si spiegasse come il suo artefice, Euclide, ne abbia derivato il metodo deduttivo dall’Accademia platonica, basandolo sulla priorità di assiomi che per Platone erano teoremi derivabili dall’idea assiologica, con questa contestualizzazione storica si collegherebbero matematica e filosofia, e si problematizzerebbe il discorso scientifico aprendolo a nuovi possibili significati.
Se si parlasse del computer in modo storico e non soltanto tecnico, lo studente non sarebbe addestrato a un uso puramente meccanico e criticamente ottuso del computer, ma nella sua mente si connetterebbero, attorno al computer, economia, tecnologia, guerra e politica: gli andrebbe infatti spiegata una storia di scoperte tecnologiche dal transistor, al microprocessore, al modem, una storia delle lotte di mercato da cui sono nati i personal computer ed i software, una storia di Internet dalle sue origini militari ed universitarie ai suoi usi commerciali e di speculazione finanziaria. E via dicendo. La formazione di una memoria storica è oggi l’unico luogo possibile di apertura al senso critico, di un rapporto mentale non passivo con la società e con la vita.
Del resto l’abbandono del punto di vista storico nell’insegnamento della filosofia e della letteratura italiana non ha dato buoni frutti, com’era logico aspettarsi; le stesse discipline scientifiche dovrebbero essere in certa misura storicizzate. La storia come disciplina scientifica, articolata in storia etico-politica e socio-economica, sarebbe il primo antidoto contro la perdita della memoria nazionale e sociale.
Anche nella scuola superiore deve essere riservato uno spazio significativo allo sport, portando a compimento il lavoro impostato nei cicli precedenti, mantenendo quindi i caratteri non agonisti, ma funzionali all’assimilazione di un sano stile di vita e al piacere dell’interazione con gli altri attraverso i giochi di squadra. Palestre, piscine, spogliatoi, docce, attrezzi… e quant’altro devono diventare la norma e non l’eccezione. Il tutto gestito da personale qualificato e ben remunerato.
Questo documento è stato redatto da Massimo Bontempelli e da Fabio Bentivoglio, docenti di storia e filosofia a Pisa e fatto proprio dal “Gruppo Scuola e Università” di Alternativa come base della propria proposta per una rivitalizzazione della scuola pubblica statale italiana.
[Sul tema della scuola si segnalano due saggi dei due autori, particolarmente significativi perché pubblicati nel 2000, cioè nell’anno in cui è entrata in vigore la riforma di Berlinguer che ha aperto la strada a tutti i successivi interventi distruttivi del sistema dell’istruzione pubblica statale nazionale:
Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola italiana, Editrice C.R.T., Pistoia, 2000
Fabio Bentivoglio, Il disagio dell’inciviltà, Editrice C.R.T., Pistoia, 2000]
La tristezza ha accompagnato la lettura di un testo tanto saggiamente propositivo. Tristezza nel costatare come siano isolate voci come queste, in mezzo al ciarlare vincente dei venditori di fumo. Avrei una sola obiezione: è vero che Luigi Berlinguer, coi suoi pedagogisti fuorviati dal peggior sinistrismo, quello americaneggiante tutto schede e test, unito alla demagogia del rifiuto della selezione, è stato forse il peggior ministro della Pubblica Istruzione, il che è tutto dire, ma non è vero che il declino della scuola pubblica è cominciato con la sua gestione. La demolizione era in atto almeno dagli anni Settanta.
Una disamina esaustiva alle questioni sollevate dall'articolo (splendido il punto 6) richiederebbero molte pagine.
Mi limito solo a sottolineare alcuni punti: "il depauperamento intellettuale e morale, prodotto su scala di massa dall’odierna società del mercato e della tecnica" di cui parlano i redattori, fa il paio con glu Universali Astratti e con la Matematica così potentemente rivalutati nell'articolo. La Storia (in generale, e della Filosofia in particolare) ci ha consegnato dei dati sufficientemente precisi: è grazie all'invenzione degli Universali che nascono concetti e paradigni astratti e non verificabili. La platonica cavallinità di cui abbiamo discusso in altra occasione. Tutto il mondo così come lo conosciamo ruota attorno ad astruse verbalizzazioni relativi ad astrazioni che non trovano nessuna controparte sensoriale e che sono la base di ideologie che escludono qualsiasi verifica fisica.
Per citare Epicuro: ""Per mio conto io non so concepire che cosa è il bene, se prescindo dai piaceri del gusto, dai piaceri d'amore, dai piaceri dell'udito, da quelli che derivano dalle belle immagini percepite dagli occhi e in generale da tutti i piaceri che gli uomini hanno dai sensi. Non è vero che solo la gioia della mente è un bene".
Il che ci porta diritti diritti alla questione della Matematica intesa come materia che "educa all'astrazione". In effetti, tutta la descrizione del Mondo su basi matematiche la dobbiamo a quel Cartesio che con la sua dicotomica Res Extensa contro Res Cogitans ci ha catapultati nel mondo in cui la Natura (Res Extensa) è un'ente che non richiede nè attenzioni nè cure, ma solo studi approfonditi da parte dell'uomo (cogitans) ai fini di piegarla al proprio volere. La cosa ha radici molto lontane, come ho cercato di spiegare nel mio articolo su Talete
https://www.appelloalpopolo.it/?p=2531
E' mia convinzione che un'umanità educata alla logica e alla matematica, agli universali e alle astrazioni in genere non sia un'umanità migliore di quella educata al rispetto e alla cura del mondo. In che senso un valente scacchista sarebbe da preferire ad un bravo boscaiolo? Insomma sono convinto che il depauperamento intellettuale e morale di cui parlano Bontempelli e Bentivoglio possa trovare delle cause serie in quegli stessi rimedi che vengono proposti.
Tonguessy
io un boscaiolo l'ho conosciuto negli ultimi due anni, perché ha tagliato un bosco di gente che frequento abitualmente. Non so se fatica più lui o i muli di cui si serve. Sia lui che il figlio che chi eventualmente lo aiuta sono costretti a fare un uso energetico del vino, che utilizzano come doping. Oggi il suo lavoro è a rischio. Dice di non rientrarci più, a causa della concorrenza (diverso è il caso del boscaiolo che ha anche una segheria). E' davvero un animale da fatica. Ebbene credo che sia persona del tutto inadatta a impostare un problema (che non sia il suo; ma francamente mi sembrava inadatto anche a risolvere i suoi problemi) e a risolverlo o comunque ad argomentare una o altra soluzione. Credo, insomma, che avrebbe bisogno di studiare.
Per fare il boscaiolo non è necessario studiare; basta lavorare come un mulo. Il valente scacchista, quando non è un malato per passione e quindi con tutti i limiti dei malati (sono candidato maestro di scacchi e sono stato malato e soprattutto ho conosciuto molte persone enormemente più malate di me), generalmente è persona che sa impostare e risolvere problemi o comunque argomentare una o altra soluzione.
Stiamo attenti. Lo scrittore sardo che ha scritto il romanzo del gregge dal quale è stato tratto il film "padre padrone" ha dichiarato poco tempo fa di ringraziare il padre (quel padre che non lo mandò a scuola) perché se egli ha saputo raccontare la vita del gregge lo deve al padre. Un conto però è valorizzare i saperi materiali e tutelare chi fa lavori duri; altro conto è sostenere che la scuola dovrebbe far diventare lo scolaro come il boscaiolo al quale ho accennato o il pastore sardo padre dello scrittore (di cui non ricordo il nome). Francamente nessuno vuole o vorrebbe frequentare questa scuola.
La capacità di astrazione manca nei bambini ( se ad essi dici "tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino" i bambini cercano con lo sguardo la gatta) e manca anche in alcuni soggetti, in particolare, spesso ma non sempre, manca agli imprenditori, i quali dedicano tutta la vita e tutti i pensieri ad un solo obiettivo e diventano monocoli incapaci di vedere il mondo dagli altri 359 gradi dai quali può essere guardato. Oggi siamo nelle mani di fanciulli e si vede (tu stesso hai spesso descritto il cortocircuito che si è verificato e che impedisce si seguire la "logica" dell'attività dei politici).
Io credo che la capacità di conoscere, comprendere e fare propri i principi e i concetti astratti – Stato, nazione, internazionalismo, periodo storico, fase storica, umanesimo, contratto, obbligazione ecc. e, per venire agli scacchi, controllo del centro, vantaggio di sviluppo, dominio di diagonali, case deboli, case forti – sia un miglioramento, che si può desiderare o meno. Le capacità mentali del boscaiolo o del pastore – le capacità di impostare problemi e risolverli; le capacità di relativizzare per ragioni di storia e di geografia, le capacità di separarsi dal proprio piccolo mondo e di interrogarsi sul resto del mondo – generalmente sono quasi inesistenti. Tanto che nessuno desidera sviluppare intelligenza e capacità mentali medie dei boscaioli. Non si va a scuola con questi obiettivi, bensì proprio per non essere limitati come il boscaiolo e il pastore. Entro un certo limite lo Stato ti obbliga ad acquisire (obbliga i tuoi genitori a farti acquisire) certe capacità (la scuola dell'obbligo). Se le astrazioni si prestano all'uso ideologico, possono al tempo stesso essere smascherate soltanto con l'uso della logica astratta. Il pensiero è puramente e semplicemente astratto. L'uso ideologico delle astrazioni persuaderà anche il boscaiolo e il pastore. Soltanto chi ha sviluppato concetti astratti e capacità critiche sarà in grado di sfuggire all'uso ideologico dei concetti.
D'altra parte sarebbe davvero assurdo che taluno volesse vivere come un animale o come un bambino e poi volersi assicurare contro i rischi di cagionare danni a terzi servendosi della scienza attuariale o versare contributi per prendere pensioni che risultino da determinati calcoli o pretendere che gli immobili siano costruiti con le dovute caratteristiche antisismiche ecc. ecc.
Essere antimoderni, per respingere quei tratti della modernità schiavizzanti, infantilizzanti, deprivatizzanti, inquinanti e che spesso presuppongono o impongono proprio la perdità delle capacità critiche e astrattive si. Essere antimoderni per perorare una o altra forma di primitivismo non mi trova d'accordo. Oltre che obiettivo irrealistico (anche il mio è irrealistico) si tratta per me di un non obiettivo. Colui che dopo aver frequentato, adempiendo i propri doveri, la scuola dell'obbligo decide di fare il boscaiolo ha il diritto di farlo. Questa mi sembra la massima da rispettare.
Giova ricordare che il traghettamento dall’era industriale a quella finanziaria è avvenuta grazie alla matematica di Merton e Scholes (Nobel per l’economia, e qui ce ne sarebbero di cose da dire, perchè non è un Nobel vero e proprio ma un’invenzione delle banche) che hanno gettato le basi per la finanza speculativa. Con base matematica, ovviamente.
I danni che sanno fare certi matematici, dalla soluzione dell’equazione di terzo grado per calcoli balistici e bancari (Ars Magna di Cardano) non sono minimamente paragonabili ai danni che un boscaiolo può fare. Perchè il boscaiolo cura il bosco (facendo fatica, ma mi pareva che fare fatica tu non lo vedessi poi così male) mentre l’esperto finanziario convince il parco buoi ad avere fiducia in quelle formule che permettono al capitale di rivalutarsi nelle tasche degli speculatori. Non si cura del mondo, si cura solo del capitale.
Eppoi, se siamo in tre ad essere irrealisti (io, te ed i redattori) perchè uno dei tre Ou Topos (il mio non-luogo) deve necessariamente essere scartato? Proibito ricordarci che l’umanità ha fatto a meno di matematici, fisici, ingegneri, biologi, medici, economisti, speculatori e capitali per quasi la totalità della propria esistenza in questa terra?
Con tutto l'apprezzamento per le idee di questo articolo, che è vero va meditato, io che di scuola media e superiore me ne occupo da decenni, non trovo in questo articolo nemmeno una idea utile per uscire dal pantano in cui costringiamo i nostri figli a sprecare 8 anni di vita. Probabilmente chi lo ha scritto non conosce la frustrazione, la demotivazione, lo sbragamento culturale ed etico di buona parte del personale scolastico attuale. O forse si illude che aumentandogli lo stipendio di 200 euro ed inserendo un po più di matematica e storia le cose potrebbero migliorare. Ma non credo Bontempelli fosse così sprovveduto. Si tratta forse semplicemente di un pezzo di un puzzle ancora da costruire. Magari partendo dalla concreta realtà della scuola statale superiore italiana oggi.
Caro Romano, non credo che si tratti di un pezzo di un puzzle ancora da costruire. Credo che l'articolo dica chiaramente cosa la scuola deve essere e abbia anche un contenuto implicito.
Basta con i progetti e con i "giochi gruppo";
Basta con le immagini: filmati; libri pieni di figure.
Basta con i libri descrittivi e lunghissimi, pieni di notizie e informazioni. Il libro, nelle scuole medie secondarie, deve essere denso, chiaro nella forma ma profondo nei concetti, tale da imporre una lettura lenta, che il pensiero in azione possa seguire.
Basta elevare l'età della scuola dell'obbligo. Sedici anni è il massimo invalicabile, che solo una società ipocrita – che vuol produrre in realtà perditempo consumatori indebitati – può voler superare.
Sottrarre i bambini alla miniera o alla dura vita della campagna o della montagna doveva servire a sottoporli alla severa disciplina dello studio. I giovani, dai quattordici anni in poi, devono esercitare i muscoli del culo.
Basta con l'ipocrisia della scuola facile. Basta con la vergognosa tutela della riservatezza che vorrebbe non segnati in rosso i bocciati (nei quadri di fine anno). Basta con il terrore di bocciare. Dai quattordici anni in su sarebbe bene che la scuola bocciasse tutti coloro che non raggiungono i risultati attesi. Non dobbiamo produrre laureati. Dobbiamo produrre uomini. E uomini sono soltanto coloro che fin da bambini sono stati educati a capire il senso del limite, a lottare contro sé stessi per superarsi, ad accettare la sconfitta, il fallimento, la delusione. Si la sconfitta; la più grande maestra che si possa immaginare.
Ecco cosa scriveva il grande latinista comunista Concetto Marchesi: "Passati i limiti della scuola obbligatoria, giunti sulle soglie della scuola specializzata, della scuola professionale, della scuola media superiore, si deve iniziare l'opera salutare di selezione che Quintino Sella, il vecchio statista piemontese, auspicava senza vederne i modi e la possibilità di attuazione, quest'opera di selezione la quale deve consistere nel dirigere e nell'avviare tutte le attitudini e le capacità dei singoli individui verso quelle vie in cui possono più degnamene operare e progredire. Selezionare non vuol dire costituire la folla degli umiliati e dei reietti, vuol dire disperdere la folla degli spostati e per spostati intendo semplicemente coloro ai quali le facoltà naturali indicano altre strade degnissime di opera e di profitti che non siano quelle delle scuole superiori": https://www.appelloalpopolo.it/?p=2226
Certo, si pone il problema della famiglie e della diseducazione che danno ai bambini. Il fatto che oggi i bambini non sanno stare seduti quattro ore. Bene il compito primario della scuola elementare è di combattere contro la inciviltà dei genitori e di riuscire a far star seduti per quattro ore i bambini.
Questo gravissimo problema, che si perpetua anche per i giovani di età avanzata, con genitori che rompono i testicoli ai docenti, va risolto attrobuendo alla scuola un potere che oggi non ha e la funzione di sottrarre i giovani alle ansie dei genitori. Nel proprio campo, la scuola prevale senza limiti sui genitori. Il concetto l'ho espresso, assieme ad altri principi, nel Manifesto:
"21. La libertà nella scelta dei metodi educativi è sacrosanta. Invece, l’obiettivo dell’educazione è un dato indiscutibile: che il giovane sia coraggioso, intelligente, colto, paziente, disponibile a sopportare immensi sacrifici per il raggiungimento degli obiettivi che si prefigge, magnanimo con i deboli e dignitoso con i potenti. La realizzazione di questo obiettivo non è affidata soltanto ai genitori, bensì anche alla Scuola; o soltanto alla Scuola, quando i genitori si rivelino inidonei o deliberatamente si sottraggano al loro sommo dovere.
22. Le funzioni essenziali della Scuola e dell’Università sono due: formare gli uomini e valorizzare i talenti. La Scuola, se si tratta di Scuola tecnica, può eventualmente svolgere anche la funzione di fornire agli studenti notizie e tecniche utili a svolgere un lavoro. L’Università e i licei, che non siano licei tecnici, mai.
23. Bisogna ridare prestigio alla Scuola. Ma il prestigio presuppone il potere. Nella sfera di competenza della scuola, il potere educativo della medesima, se contrasta con l’orientamento dei genitori dello scolaro, deve prevalere. La scuola deve sottrarre i giovani alle pretese e alle ansie dei genitori, per renderli uomini.
24. La scuola non deve formare uomini moderni, bensì semplicemente uomini, che sappiano guardare dentro di sé e fuori di sé. https://www.appelloalpopolo.it/?p=22
Quella che ti ho descritto è l'ideale della scuola di massa socialista (la scuola sovietica era così). Essa è mille volte migliore rispetto alla scuola di massa liberale che ci ritroviamo (anche per colpa di forze che, invece di essere socialiste, sono state liberali, sia pure "di sinistra").
Tu mi dirai, sempre che condivida gli obiettivi: ma questa scuola non si può realizzare. Bene servirebbe un partito, il Fronte Popolare, che queste cose le dice tutti i giorni. Un partito che non ha bisogno di tanti indignati liberali di sinistra che amano protestare in nome della scuola laica. Ha bisogno del consenso della parte migliore, che ancora esiste, dei ceti popolari. Spesso si tratta di persone che non hanno mai partecipato ad una manifestazione.
Più cresce il degrado, più le idee che ti ho espresso diverrebbero forti. Ma riuscirà mai un Fronte popolare italiano, magari votato dal solo 4 % degli elettori, a sostenere queste cose in Parlamento?
Beh intanto stai tirando fuori elementi che nel testo di Bontempelli non avevo visto. Forse ci sono troppi impliciti. Vedo però che continui a non sfiorare mai il tema centrale: il docente ed il sistema organizzativo in cui deve operare.Forse dai per scontato che l'attuale corpo insegnante sia preparato, motivato ed in grado di trasferire apprendimenti. Dai per scontato che il contesto organizzativo in cui avviene l'apprendimento sia quello migliore. Io no. Conosco troppo bene e dall'interno la malattia, per far finta che non esista. E ad oggi ho visto che l'unico vero antidoto è dare spazio alle comunità locali, fuori dai programmi ministeriali, per consentire a chi ci crede di fare scuola e non semplice contenimento dei mostri. E per quanto riguarda la bocciatura io mi appassiono maggiormente verso una scuola che fa di tutto per trasferire apprendimenti, ad ognuno secondo le proprie capacità e necessità. Quella roba della selezione, avviene normalmente in tutte le società. Nel tuo modello vorresti semplicemente basarla sul possesso di skills di natura logico-matematico, mentre gli skills che servono sono anche la capacità di progettare, di cooperare, di fare manuale ecc. Il discorso diventa lungo. Pur trovandomi in profondo e preoccupato dissenso per quanto hai detto sopra, vorrei che si potesse ragionare in modo pacato. Partendo però da quello che la scuola è e la scuola fa oggi.
Non vedo contrasto tra la bocciatura e capacità di progettare, di cooperare, di fare manuale ecc Chi non ha le capacità richieste a fine anno viene bocciato. Possiamo discutere sugli standard richiesti. Ma chi non li raggiunge viene bocciato e ripete. Non è un problema. Non tutti, però, alle superiori, devono imparare il fare manuale e, finita la scuola dell'obbligo, non tutti devono (continuare a cercare di) imparare la storia o la matematica.
Quindi il dissenso non c'è, salvo che tu sia contro la bocciatura in sé.
Quanto ai docenti, ormai i professori che sono dentro sono dentro (io sono figlio di due professori di scuola media secondaria). Perciò l'ipotetico miglioramento sarebbe lento. Anche su questo concordiamo. E non credo si possa dissentire.
Come migliorare il corpo docente. Non vedo altro modo che bandire un concorso ogni due anni e stabilire che chi è bocciato in tre concorsi non può più partecipare (avviene nel concorso in magistratura); anzi: chi prende l'abilitazione in tre concorsi senza vincerli. A quel punto puoi anche decidere di fare il precario per venti anni. Ma sai con certezza che non avrai mai il posto sicuro. E non perché lo stato è cattivo; bensì perché preferisce che entrino i giovani bravi. Il pluribocciato può sempre decidere di fare un altro lavoro (come accade a molti che per anni studiano per superare il concorso in magistratura o per il notariato e non lo vincono).
Insomma, come la metti la metti, bisogna essere severi. Con sé stessi, in primo luogo. Una società non severa non è seria. Ciarla a vuoto. Una società non severa è per vocazione naturale una società di consumatori, di indignati, di "uomini" senza una o altra fede, senza coraggio. La diffusione di questi mali non è casuale; non dipende dalla casta; non dipende dalla inefficienza della pubblica amministrazione. Dipende da scelte che stanno al fondo della società. Senza modificare quelle scelte, non c'è soluzione. Si possono soltanto svolgere discorsi che si reggono su uno spillo.
I limiti della scuola non stanno solo nelle materie insegnate o nei problemi del singolo studente o del singolo docente, ma derivano dall’impostazione complessiva di quella stanza che si chiama aula frontale, segmentata in banchi e attraversata ogni ora da un docente diverso, con quel tipo di comunità che non è una comunità.
La famiglia ha perduto quella forza autoritaria e costrittiva che aveva un tempo, la stessa scuola ha perduto insieme autorità e autorevolezza.
Il rigore la severità costituiscono una componente essenziale di una comunità educante, ma essa non può esser fondata se non su un progetto condiviso.
Si dice che i ragazzi non vogliono faticare. Non è vero: abbiamo migliaia di esempi di fatiche enormi in cui i ragazzi si impegnano, quando sono convinti di qualcosa.
E allora, siccome la scuola è anche fatica dobbiamo tornare alla motivazione ed alla libertà che sono state conquistate nella vita quotidiana. La libertà è pretesa che si motivi quello che si fa.
L’ipse dixit non convince, non regge in un regime di questo genere, scolla il rapporto tra la domanda sociale di istruzione che deve essere rispettosa della domanda sociale di libertà.
La pura imposizione oggi è impotente.
Quali sono allora le molle dell’educare? La curiosità: la scuola è il luogo dei “perché“, scoprire e capire. E poi la bellezza e la gioia che purtroppo oggi sono bandite dalla scuola.
Non c’è gioia senza grande fatica, gioia di vivere un’avventura, un’esperienza intellettuale, esistenziale, come è quella dell’apprendere.
La scuola ha curato la razionalità ma l’ha separata dall’emozione, addirittura sezionando il cervello in due, e con esso la natura umana.
Questa è l’impostazione che abbiamo ricevuto 100 anni fa e che ci stiamo portando dietro ancora, e che non riguarda il modo di operare del singolo docente ma il sistema.
Non si nega il valore della sintassi, dell’astrazione, senza le quali non c’è cultura: si nega il fatto che esse vengano prima, che siano tutto. Sono infatti sempre meno i ragazzi “contemplativi”.
Va invertito il processo di apprendimento in tutte le sedi scolastiche. Perché questo segna il cambiamento delle impostazioni: rapporto fra fare e sapere, superamento del disprezzo per la manualità che costituisce invece elemento essenziale del sapere, specie se usciamo dal monopolio del linguaggio verbale.
Chi suona il flauto lo fa con la bocca e con le mani e pensa anche con la bocca e le mani, fa cultura anche con la bocca e le mani. Perché il sapere lo determina anche la fisicità.
Nella scienza si sperimenta con le mani e si costruisce insieme la teoria e le grandi leggi con cui interpretiamo l’universo.
L’apprendista, cioè il bambino che impara, incarna bene l’idea di apprendimento, perché tutto tocca, vuole sapere, vuole capire…
Non si può imparare a nuotare se non ci si immerge nell'acqua. Come diceva Hegel, contro Kant, è solo dal confronto con i fenomeni che si possono cogliere i limiti del nostro intelletto. Pretendere di individuare questi limiti prima di iniziare a conoscere equivale a “voler imparare a nuotare prima di immergersi nell’acqua”.
E lo stesso San Tommaso, a cui nulla si può imputare in fatto di capacità di astrazione, scrisse che: “Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu”. Non c’è nulla nell’intelletto che non sia prima passato sotto la percezione dei sensi.
Perché la scuola italiana è così scarsa nelle indagini OCSE? Non perché i nostri ragazzi non abbiano una serie di nozioni, ma perché non le sanno applicare.
E’ il problem solving che manca. Abbiamo una scuola che ha formato attraverso la filologia un’intera classe dirigente, ha formato una burocrazia che non è neanche sfiorata dal problema del risultato.
Questa classe dirigente la stiamo ora scontando perché ha escluso dalla scuola quei piccoli imprenditori e tecnici che invece hanno fatto il miracolo economico dell’Italia.
Siccome insegnare è un mestiere difficilissimo la premessa è conoscere quello che si insegna ma anche conoscere l’anima di chi ci ascolta.
Non si può seminare senza sapere se quel terreno è adatto a quel seme, perché se è inutile, il seme lo rifiuta. Se c’è una parte sempre più grande di alunni che si annoia, che si stanca, che gira l’occhio altrove non si può solo imputarlo al fatto che il ragazzo è “maleducato”.
La scuola si deve rivolgere a tutti. Deve certamente allevare i suoi talenti: non c’è niente di più ingiusto che comprimere i talenti al livello degli altri, è ingiusto e iniquo perché spesso quei talenti non sono riconosciuti per ciò che valgono.
Bisogna creare le condizioni per chi ha dentro di sé un fuoco più bruciante di altri, possa camminare più spedito. Ma nello stesso modo bisogna creare le condizioni per sostenere la media e anche quelli che sono al di sotto della media. Qualità ed equità. I cervelli non sono tutti uguali. Non c’è niente di più iniquo che pensare all’eguaglianza come uniformità.
Bisogna superare l’impostazione morfo-sintattica dell’apprendimento linguistico. E’ necessario il contrario: parlare, contare, suonare, vedere le immagini viene prima di scrivere e di leggere. Certo che si deve arrivare a leggere. La gente che sa parlare impara anche a scrivere; la gente che impara a suonare in certi paesi non sapendo solfeggiare, suona, e poi leggerà. Persino nella scienza si sperimenta e contemporaneamente si studiano i concetti.
Ma la scuola secondaria si articola ancora in una prima ora, seconda ora, terza ora, quarta ora … fraziona e segmenta il sapere, lo scompone e fissa, cristallizza ed estranea la sensibilità discente. La società è mobile e la scuola è fissa, rigida. Per questo non interpreta la domanda sociale di cultura.
Le stesse epoche storiche, i fenomeni naturali spezzettati sono quasi indecifrabili; l'organizzazione.
Le competenze dei docenti sono spezzettate. La stessa impostazione universitaria per la preparazione delle lauree è eccessivamente segmentata per uno che deve andare ad insegnare.
La stessa sequenza oraria del tempo scuola è decisiva. Negli altri paesi quello che si fa alla prima ora lo si fa con un certo numero di studenti della classe, e quello che si fa nella seconda e terza ora si fa con un numero più ampio. Il gruppo classe si compone, ricompone, scompone, a seconda del tipo di apprendimento disciplinare dettato dalla natura di quello stesso apprendimento.
In una qualunque scuola dei paesi più evoluti trovate questo metodo, questa prassi: non si possono avere le stesse persone che si faccia un esperimento scientifico o si faccia una lezione di storia, o la lettura di una poesia.
Ci sono diversità che vanno tenute presenti, e questa omogeneità forzata, che è stata quella della ministerializzazione, che oggi è assolutamente fuori tempo massimo.
L’autonomia della scuola è in primo luogo ricerca didattica, che significa studiare i comportamenti di chi apprende e vedere se funziona o non funziona. E’ il modo di proporre un determinato insegnamento, perché il modo di creare conoscenza e apprendimento richiede ricerca permanente e questo eleva la dignità del docente, gli dà una funzione maggiore di quella che le riforme organizzative possono offrire. Investire nella quotidianità dell'attività di apprendimento: la scuola intera va investita di questo e deve diventare una comunità educante, deve essere severa e rigorosa ma capace di coinvolgere in progetti di auto-apprendimento, in cui le vocazioni e gli interessi, le curiosità, sono ricchezza e vanno stimolati.
Occorre un monitoraggio permanente dell'attività di apprendimento, non i corsi di recupero tardivi. Occorre un monitoraggio permanente della crescita quotidiana dell’alunno, per arrivare quando c'è un suo rallentamento, nel momento ancora utile non solo per reprimere ma anche per trovare una strada per superare quell’ostacolo.
Questo è il manifesto per la riforma della scuola che vorrei leggere.
Romano Calvo
Non c'è dubbio che ciò è più faticoso e richiede più risorse, però se questa è la priorità va praticata.
Caro Romano,
dissenso assoluto sui punti fondamentali. Sono dell'avviso che quelli che la pensano come te siano stati la causa principale dello sfracelo. Siete in tanti a pensarla così, facci caso (molti senza la tua intelligenza e le tue capacità agomentative). Come me la pensano in pochi. E in democrazia si realizza la volontà della maggioranza.
Hai toccato tanti punti. Quindi passerei per un momento in attesa che qualcuno si introduca nel dialogo, che è interessante. Ti rileggo e ti rispondo con calma
Su un punto però dovrai convenire: Veltroni non è laureato, D'Alema nemmeno, Vendola si è laureato a trentanni (credo). Non credo che Gasbarri sia laureato. Bossi non è laureato. Nel consiglio comunale della mia cittadina credo che il 70% non siano laureati (nel 1977, quando pochi erano in assoluto i laureati, il 70% erano laureati). Sia chiaro, la laurea di per sé non significa niente, perché c'è l'autodidatta geniale. Però, le statistiche contano.
La questione in oggetto l’ho vissuta da due punti di vista opposti ed entrambi parziali.
In quanto discente, frequentando un prestigioso liceo classico milanese, iperselettivo ma nel pieno delle lotte studentesche di cui tale liceo era all’avanguardia (c’è un nesso tra le due cose, e si chiama “falsa coscienza nella lotta per un posto al sole”).
Come docente freelance in varie università, specialmente in India. E su questo ritorneremo.
Mia moglie, docente per moltissimi anni di matematica in istituti per ragionieri, mi ha sempre accusato di avere una visione parziale delle cose, in altri termini di fare riferimento alla mia esperienza nel “prestigioso liceo classico” e di non avere idea di cosa succede in istituti più, diciamo così, “proletari”. La cosa venne fuori la prima volta durante una discussione sul libro “Segmenti e bastoncini” di Luigi Russo, in cui io mi riconoscevo.
Mia moglie sottolineava l’impossibilità di riportare in altri contesti scolastici la maggior parte dei suggerimenti di Russo, sovente non espressi in termini positivi ma impliciti nelle sue critiche alla scuola italiana post Berlinguer.
Eppure mia moglie è sempre stata nota come una professoressa molto esigente, di vecchio stampo, pronta a sostenere, se necessario, la necessità di bocciare, dopo però aver scrutinato non solo i voti, ma anche le condizioni sociale e familiari dell’alunno. Tra l’altro mi faceva notare che i docenti “lassisti” erano disprezzati dagli alunni, quantunque di tale lassismo essi si approfittassero.
E in questo atteggiamento contraddittorio degli alunni c’è forse gran parte della questione che stiamo discutendo.
Che esigenza ha chi frequenta la nostra scuola? Che servizio, che guida può offrire la scuola?
Un parcheggio? un supermarket di pezzetti di psudo-cultura? strumenti per potere “affrontare il mondo del lavoro” – e quale eventualmente? strumenti critici? La risposta dipende dall’ordine di studi?
Non è facile dare risposte con una qualche pretesa di conclusività. Riporterò allora solo alcuni punti basati su ciò che so.
1) Circa 20 anni fa dovetti discutere, per il mio lavoro, sull’utilizzo di sistemi di insegnamento basati sui computer, con un consulente del governo USA per le politiche scolastiche. Una volta in disparte mi disse guardando con compassione le nostre avanzatissime soluzioni tecnologiche: “Il nostro sistema scolastico è ormai completamente devastato. Adesso si cerca di puntare sui computer, sulle reti, sulla tecnologia. Lo abbiamo già fatto massicciamente, ma non riusciamo ad uscire dal disastro”.
Eppure abbiamo avuto per anni consiglieri del nostro Ministero ubriacati da Internet e uomini di governo per i quali dovevamo per forza copiare il disastro d’oltreoceano. Non posso farla lunga, ma essendomi occupato di queste cose vi posso assicurare le immense idiozie che ho dovuto sentire a tutti i livelli.
2) Prego verificare questa notizia di pochi anni fa. Un magistrato aveva sentenziato che uno studente poteva legittimamente rifiutarsi di farsi interrogare in Matematica se questa interrogazione lo poteva rendere infelice. Io ho letto stupefatto coi miei occhi l’articolo che riproduceva quella sentenza, che cito a senso, ma non ricordo più dove.
Verosimile? Inverosimile? Bene, allora sentite questa. Ogni anno vado in India a tenere conferenze e lezioni. Tre anni fa, se non ricordo male, lessi una notizia molto simile su un quotidiano indiano (dovrei averlo ancora da qualche parte): si discuteva dell’opportunità di rendere facoltativi sia l’Inglese sia la Matematica, per non creare insoddisfazioni nei giovani studenti indiani. Non so come sia andata a finire, ma evidentemente nel mondo gira una forte preoccupazione riguardo i giovani studenti.
E che tipo di giovane si vuole formare, allora?
Vi domando: con queste cialtronaggini si possono formare giovani capaci di avere un senso critico, di lottare, di prendersi le proprie responsabilità, o non è più probabile che escano dei poveri infelici affetti da depressione (la sindrome più comune tra i giovani, anche della classe media indiana) perché se la possono prendere solo con se stessi dato che non hanno mai dovuto lottare per ottenere nulla?
E allora, ritorniamo ad un punto precedente. La scuola deve fornire strumenti critici.
Noi nel Sessantotto avevamo due leitmotiv: “No alla scuola di classe”, “No alla scuola nozionistica”. Siamo stati presi sul serio, non sto scherzando, e abbiamo ottenuto una scuola iperclassista totalmente nozionistica.
Perché è iperclassista una scuola che tendenzialmente non fornisce uno strumento critico che sia uno e inonda la testa degli allievi di spizzichi e bocconi di tutto e di più. Una sistema scolastico dove devono esistere le superscuole perché quelle normali sono ormai considerate “ciofeche” (la maggior parte delle università statunitensi, mi dicono docenti che vivono e lavorano là, sono in realtà licei. Così se voglio una vera formazione universitaria devo andare ad Harvard, alla Carnegie Mellon, a Standford, nelle super-università).
Non c’è nulla di più orrendo della differenza di classe travestita da egalitarismo. Purtroppo di questo imbroglio la sinistra è stata maestra, a volte col coltello tra i denti, a volte con le migliori intenzioni (non si sa cosa sia più pernicioso).
Allora apriamo, da qui in avanti, il dibattito sugli strumenti critici. Io vi parteciperò come posso dato che, come ho già detto, possiedo solo un’esperienza molto parziale.
Ad ogni modo. Durante il Sessantotto criticavamo lo studio del Greco perché non c’entrava nulla col mondo del lavoro. Immane idiozia di cui non mi perdonerò mai. E perché mai un giovane a quell’età deve essere già rimbecillito da ciò che gli servirà nel mondo del lavoro? L’unica scusante è che, grazie a docenti che terrorizzavano, il Greco e tutte le altre materie “inutili” – di fatto tutte tranne Educazione Fisica perché ci si divertiva a non farla:) – dovetti invece studiarmele, eccome, fino a maturarmi col massimo dei voti.
Col senno di poi, se c’è una materia che mi ha fornito strumenti critici è stata il Greco. Poi all’Università fu la Storia, la Filosofia e -udite udite – la Matematica.
La Matematica, se non la si riduce a far di conto e al calcolo differenziale e integrale, usato per produrre modelli economici che solo in rari casi ne hanno azzeccata una (per un motivo molto semplice: non includono un parametro fondamentale, cioè il Potere e la lotta per il potere), se ci si inoltra ad esempio nel campo della Logica o in quello della Geometria Algebrica, delle Categorie, allora si vedrà che esiste una matematica concettuale che poco ha a che vedere con la dicotomia cartesiana. Non solo, la produzione matematica è tutto tranne un gioco razionale di bussolotti. Chi ha fatto teoremi sa che la revisione razionale del risultato è l’ultima cosa, dopo intuizioni, letture o discussioni (e quindi scambi sociali), sogni, scarabocchi senza senso, mal di pancia e tachicardie. Se tutto ciò è fredda razionalità …
Giorgio Agamben, in un memorabile studio di molti anni fa, sostenne una tesi suggestiva. L’uomo non nasce col linguaggio, deve apprenderlo. Il processo di apprendimento del linguaggio, cioè dello strumento con cui l’uomo si riferisce all’ambiente naturale e sociale che lo circonda, pone una distanza tra l’ambiente e il soggetto. E’ grazie a questa distanza che l’ambiente da annusare diventa un mondo da capire e quindi inizia la possibilità della Storia.
Per avere una visione critica, è necessaria una distanza, un po’ come per capire le figure in un quadro impressionista. Lo strumento critico è nel linguaggio. Il linguaggio è uno strumento critico. Per questo ce lo vogliono sottrarre e sostituire con le immagini in movimento, con l’immediato controllato da fuori.
Chiamandolo “spontaneità”.
Piero Pagliani
Grande Piero. Applausi.
A questo punto sento di doverti dare un consiglio fuori tema, da avvocato. Scrivi il tuo (breve) intervento per Chianciano, più o meno lungo come questo. Imparalo (quasi) a memoria . E poi, dopo aver fatto le prove, recitalo alla platea.
Penso che in ognuno di questi post ci sia una parte di realtà. Da questa bisogna partire, perché la scuola è elemento centrale per costruire una strategia di uscita dalla società dello spettacolo e dei consumi.
Abbiamo fatto (come Alternativa) l'errore di cominciare questa importante discussione e di non continuarla. Questa discussione tra D'andrea, Calvo e Pagliani potrebbe esser l'occasione per riprendere il filo.
Ma, per favore, non per 'post'. La questione è troppo seria e centrale per ridurla alle tattiche da blogger
Ettore Macchieraldo