Insegnare la chimica in inglese? (2a parte)
di ENRICO PRENESTI (Università di Torino)
La polarizzazione degli interessi delle università verso la ricerca scientifica (inclusa la valutazione dei docenti – anche in sede di reclutamento e avanzamento – basata quasi esclusivamente sulla produzione scientifica e i suoi dintorni stretti) sta conducendo a trascurare il diverso ruolo del linguaggio nei suoi campi d’azione. È innegabile che la lingua inglese abbia saputo imporsi nel mondo come lingua franca (o lingua veicolare), cioè come lingua passe-partout che permette la comunicazione tra parlanti di diversa nazionalità.
Impiegare l’inglese come lingua di istruzione unica tra studenti e docenti madrelingua italiani, però, significa ignorare i concetti di linguistica, neuroscienze, antropologia, psicopedagogia e pedagogia interculturale che riferiscono dell’importanza della lingua materna nel processo educativo e di apprendimento delle discipline. Insegnare una disciplina in una lingua diversa dalla propria nel proprio Paese non è un cambiamento di prassi didattica ma è il sovvertimento di un paradigma e rappresenta un inganno per gli studenti italiani, poiché comporta una deriva al ribasso dell’apprendimento disciplinare e culturale in genere, tanto più in un momento in cui si è abbassata la competenza linguistica sull’italiano. Sostiene l’uso dell’inglese nell’istruzione chi ignora le relazioni esistenti tra lingua e apprendimento e, in generale, i fondamenti della psicopedagogia.
L’impegno linguistico è diverso se si considera la comunicazione tra pari che impiegano una lingua veicolare (come è nel caso dell’uso dell’inglese su riviste scientifiche o nei congressi internazionali) oppure il processo di insegnamento-apprendimento, nel quale il discente è sollecitato all’uso di risorse cognitive e affettive che risultano potenziate dalla lingua materna e depotenziate da altri linguaggi.
Una cosa è parlare tra esperti per condividere un concetto, un’altra è spiegare a dei novizi per guidare l’apprendimento di un concetto. Il miglior metodo didattico è quello che mira a riprodurre e assecondare i percorsi di apprendimento spontanei; in tal senso, è noto dalla letteratura biologica (1) e psicopedagogica che la competenza linguistica può realizzarsi pienamente solo se l’apprendimento di una data lingua abbia luogo prima della pubertà: ciò implica che l’inglese – se gli si vuole riconoscere il ruolo di lingua passe-partout nell’istruzione italiana – va appreso entro la scuola dell’obbligo. Chi arriva a studiare all’università l’inglese lo deve già conoscere e padroneggiare, mentre la lingua di istruzione nei corsi di insegnamento accademici italiani deve essere l’italiano.
Agevolare lo scambio di idee e di persone a livello mondiale può essere un obiettivo condivisibile, nondimeno l’operazione che porta a identificare l’internazionalizzazione degli atenei con l’erogazione in inglese dei relativi corsi di insegnamento è frutto di un’interpretazione discutibile e animata da preconcetti estranei all’equazione dell’apprendimento. Da capire se la radice di tale interpretazione sta:
- nell’assenza di volontà di procurarsi la documentazione bibliografica di linguistica, psicopedagogia e neuroscienze, di studiarla, di capirla e di usarla per assumere decisioni fondate (con quello che costa l’attuale mastodontica produzione scientifica, qualcosa di pertinente si potrebbe anche leggere (e capire), prima di imporre modifiche epocali (e nocive) di impostazione);
- nell’imitazione acritica di comportamenti adottati da altri e ritenuti non già utili ma inevitabili;
- nella necessità di aumentare le iscrizioni di studenti – con un’offerta formativa appetibile anche per studenti stranieri – per il bene delle finanze e, quindi, dei bilanci.
In generale, quindi, si tratta di capire se si lavora per l’apprendimento delle discipline o per l’aumento del numero di immatricolazioni (al quale può essere connessa la sopravvivenza di un’istituzione nel momento in cui si lasci mano libera al liberismo economico a tutto tondo, con annullamento progressivo della funzione super partes dell’istituzione pubblica).
Docenti madrelingua italiani che insegnano le più disparate materie in inglese a studenti italiani e/o a studenti stranieri (di diversa madrelingua nella stessa aula) rappresentano il prodotto di chi si presta al proposito degli atenei di far cassa esibendo una facciata di apertura multiculturale verso il mondo.
Aspetti giuridici
Dal tempo della legge 240/2010 (c.d. legge Gelmini) sul riordino del comparto universitario, controversie legali sul tema dell’inglese in università infiammano questo scenario conflittuale, con coinvolgimento di TAR nel 2013 («È una soluzione che marginalizza l’italiano. Obbligare studenti e docenti a cambiare lingua è lesivo della loro libertà») (2), del Consiglio di Stato («L’attivazione generalizzata ed esclusiva di corsi in lingua straniera, non appare manifestamente congruente, innanzitutto, con l’articolo 33 della Costituzione») (3) e della Corte costituzionale nel 2017 («L’obiettivo dell’internazionalizzazione […] deve essere soddisfatto […] senza pregiudicare i principî costituzionali del primato della lingua italiana, della parità nell’accesso all’istruzione universitaria e della libertà d’insegnamento») (4).
Scontri di opinioni stanno animando tribunali, articoli di giornali e riviste, libri (5), convegni e petizioni. La sentenza definitiva del Consiglio di Stato del 2018 ha confermato la sentenza del Tar Lombardia n. 1348/2013 e ha bocciato la decisione del Politecnico di Milano (promotore, dal maggio 2012, dell’internazionalizzazione degli atenei attraverso i corsi universitari erogati solo in inglese) di organizzare, nella sola lingua inglese, interi corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca. Sono ora ammessi i corsi in inglese solo se affiancati dai corrispondenti in italiano.
In ogni caso, occorre vigilare e procedere con riflessioni e azioni, poiché il fenomeno dell’intromissione della lingua inglese nell’istruzione italiana è oncogeno e metastatico: negli ultimi concorsi per insegnanti, dalla scuola materna alla superiore, è richiesta la certificazione B2 di inglese e questo è un segnale di degrado del tessuto linguistico e culturale in genere di questo Paese (per quanto esista una visione costruttiva e innocente di questa richiesta, se la si pensa in chiave di generale potenziamento culturale dei futuri docenti operanti in una società liquida e ad alta mobilità).
Inoltre, a livello universitario molti libri sono scritti in inglese senza un valido corrispettivo in italiano, questo anche perché scrivere libri di testo è un’attività didattica e l’impegno speso su tale fronte non è conteggiato per la valutazione dei docenti universitari italiani, e questo polarizza il loro impegno sul versante della ricerca scientifica (progettualità, reperimento fondi e, soprattutto, redazione di articoli scientifici per accrescere il proprio archivio di pubblicazioni, vera moneta della sopravvivenza accademica odierna).
Atenei e internazionalità
L’inglese che si parla nel mondo ha poco a che spartire con quello delle élite londinesi, è un inglese di comodo, semplificato, che qualcuno denomina, non a caso, globish (dalla fusione delle parole globe e english): questo circola principalmente nelle aule universitarie italiane, non l’inglese. Per gli studenti stranieri che si vogliono istruire in Italia, poi, ci sono le università per stranieri (con varie sedi). Inoltre, uno studente straniero che scegliesse di frequentare l’università in Italia dovrebbe comunque apprendere l’italiano per integrarsi nel Paese; se non lo facesse si ritroverebbe socialmente isolato fuori dalle aule universitarie e, soprattutto, perderebbe gran parte dell’esperienza di crescita psicosociale e socioculturale connessa alla sua scelta di studi. Inoltre, non è scontato che uno studente straniero non madrelingua inglese preferisca una lezione in inglese (ovvero in globish, da un docente madrelingua italiano) a una in italiano: francofoni e ispanofoni, per esempio, potrebbero di gran lunga preferire l’italiano.
L’obiettivo dell’internazionalità è perseguito dagli atenei italiani ormai da vari anni, secondo modi improvvisati – didatticamente e pedagogicamente infondati – e scopi sociopolitici discutibili. Si rende oggi indispensabile lavorare per addivenire a un modello ecologico di internazionalizzazione degli atenei che preservi il primato della lingua italiana evitando l’operazione che porta a identificare l’internazionalizzazione degli atenei con l’erogazione in inglese dei relativi corsi di insegnamento. L’internazionalizzazione potrà essere declinata con esperienze di studio all’estero, che hanno il vantaggio di aprire le menti al cosmopolitismo, all’incontro, all’accoglienza delle diversità; se, però, resta centrale l’acquisizione della lingua inglese, coerenza vuole che solo i Paesi anglofoni siano considerati idonei a tale scopo, diversamente l’apprendimento soffrirà di un medium linguistico scadente.
L’insegnamento accademico si sta riducendo a un mero atto di trasferimento di informazioni e di tecnicismi (soprattutto nelle lauree di primo livello, fondate su un modello operazionale del sapere), con predilezione per gli aspetti procedurali a svantaggio di quelli concettuali; aggiungere a ciò l’introduzione dell’inglese nelle lezioni implica velocizzare il processo di scadimento di qualità della didattica a svantaggio degli studenti e di tutta la società entro la quale agiranno come laureati.
Erogare insegnamenti universitari in inglese per aiutare i giovani a trovare lavoro all’estero (tale formula è molto usata dalla propaganda dei vertici accademici italiani), poi, implica aver rinunciato a risanare il mercato italiano del lavoro e condannare all’emigrazione i costosi e, talora, qualificati prodotti dell’istruzione pubblica italiana. Si tratta di un programma di smantellamento, svuotamento e impoverimento del Paese: entro un tale sciagurato paradigma, infatti, basato sullo sciupio degli investimenti e delle risorse umane, chi ha studiato in Italia a spese dei contribuenti italiani renderà i suoi servigi lavorativi in paesi stranieri, che ne usufruiranno e beneficeranno a costo zero, e questo è semplicemente autolesionistico.
Conclusioni
È innegabile che la lingua inglese abbia saputo imporsi nel mondo come lingua franca. Livellare nella lingua, però, non è favorire scambi di merci e circolazione di persone, non è agire per il bene del globo ma per accrescere l’appiattimento e l’asservimento nella glebacon il fine di semplificare le metodologie di detenzione del potere su scala mondiale, a fronte di tecnologie che agevolano la circolazione di informazioni nel mondo che minano la tenuta dei regimi dominanti.
È pressoché impossibile dimenticare che l’inglese è lingua egemone per ragioni politiche e ci si mostrerebbe decisamente ingenui a ignorarlo come dato di fatto. Tuttavia, come ha scritto Claudio Magris, «La proposta di rendere obbligatorio l’insegnamento universitario in inglese rivela una mentalità servile, un complesso di servi che considerano degno di stima solo lo stile dei padroni» (6).
Ora, anche alla luce del recentissimo orientamento giuridico espresso dal Consiglio di Stato, mi auguro (ma già le dichiarazione del rettore del Politecnico di Milano, Ferruccio Resta, sono nel segno opposto) che le conventicole di potere ai vertici degli atenei italiani siano capaci di rivedere le loro decisioni in materia di istruzione e lingua e, soprattutto, di revisionare i pilastri della loro mentalità servile, gregaria e antipatriottica la quale, agita su larga scala, assoggetta il Paese a poteri forti e lo espone alla predazione e al disfacimento.
Il fondamento di una civiltà non è la scienza, è l’educazione, (7) e dall’educazione muove l’istruzione, che è veicolata dal linguaggio, vettore della storia e dell’identità di una comunità nazionale. La lingua è il fondamento di una civiltà, è il collante che tiene insieme un popolo, è la prima arma che si sfodera in un conflitto, preservarla e promuoverla con orgoglio è un dovere di tutti, dei docenti universitari di più.
Infine – partendo dai tanti reati impuniti che sono commessi di prepotenza nelle pieghe delle leggi e con l’ignavia, la distrazione o l’ignoranza della maggior parte dei soggetti coinvolti -, ricordo che:
- il Regio Decreto 31 agosto 1933, n. 15924 (Testo Unico delle leggi sull’istruzione superiore), art. 271 (Capo I – Disposizioni Generali, al Titolo IV – Disposizioni generali, finali, speciali e transitorie), recita: «La lingua italiana è la lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari» (nota: il decreto del Rettore del Politecnico di Milano del 2011, ordinava l’avvio in inglese di tutti i corsi locali di laurea magistrale in piena inottemperanza della legge);
- l’articolo 33, 1º comma, della Costituzione Italiana sancisce che: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» (nota: nessuno può costringere un docente italiano a tenere una lezione in una lingua che non è la sua nativa);
- la legge 15 dicembre 1999, n. 482 (“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”) stabilisce (art. 1): 1. «La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano. 2. La Repubblica, che valorizza il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana, promuove altresì la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge»;
- il riconoscimento esplicito dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica non è sancito dalla Costituzione ma è comunque espresso nello Statuto del Trentino-Alto Adige (art. 99: «Nella regione la lingua tedesca è parificata a quella italiana che è la lingua ufficiale dello Stato. La lingua italiana fa testo negli atti aventi carattere legislativo e nei casi nei quali dal presente Statuto è prevista la redazione bilingue») che, formalmente, è una legge costituzionale dello Stato Italiano.
[fine]
Qui la prima parte dell’articolo
1) Eric Lenneberg, Fondamenti biologici del linguaggio, Bollati Boringhieri, 1982
2) TAR Lombardia, sentenza del 23/05/2013 n. 1348/2013
3) Ordinanza del Consiglio di Stato del 22/01/2015
4) Sentenza n. 42 del 2017 della Corte Costituzionale (depositata in Cancelleria il 24/02/2017)
5) Maria Luisa Villa, L’inglese non basta. Una lingua per la società, B. Mondadori, 2013
6) Claudio Magris, “L’università in inglese pericolo per l’italiano” (L’uso delle lingue straniere va promosso ma senza rinunciare alla nostra identità), Corriere della sera, luglio 2012
7) Cfr. Avram Noam Chomsky, Heinz Dieterich, La società globale. Educazione, mercato e democrazia, La Piccola editore, 1997; Enrico Prenesti, Sapere per essere. Dizionario di crescita personale, Aracne editore, 2017
fonte: ilblogdellasci.wordpress.com
In una formula proustiana: acquisire la lingua madre significa parlare male tutte le altre. Essere costretti a parlare in una lingua estranea significa dunque non solo essere costretti a parlare e a pensare male, ma anche creare un’inferiorità effettiva rispetto a chi parla quella lingua come lingua madre. In questo senso l’imposizione dell’inglese all’interno della didattica è un’operazione colonialistica del mondo anglosassone in un momento storico di crisi profonda della sua egemonia – un serrare i ranghi dell’impero sempre più disfatto.
Nelle scuole superiori avviene qualcosa di simile con l’imposizione delle metodologie (?) CLIL. Nella completa mancanza di docenti bilingue, esse consistono nell’abbinare un docente che non sa la lingua veicolare con un docente che non sa la materia veicolata, si risolvono quindi nell’annullamento della materia veicolata.